Cosa ha detto l'Onu sulla Libia

L’Onu ha detto no: niente guerra in Libia. Almeno non sotto la sua egida. La crisi libica va risolta percorrendo la via politica. È quanto ha deciso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel corso di una riunione fiume dettata dall’urgenza e dalla gravità che la polveriera libica rappresenta per l’Europa. Un intervento in Libia ci sarà, ma non di tipo militare. Le Nazioni Unite sono infatti convinte che tra le parti in lotta in Libia non ci siano differenze così insormontabili da impedire il raggiungimento di un accordo. L'inviato speciale dell’Onu in Libia, lo spagnolo Bernardino Leon, ha spiegato che l’Isis ha trovato terreno fertile nell'instabilità del Paese, ma il dialogo politico sta facendo progressi.
A rappresentare l’Europa all’Onu è stata l’Italia con l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente dell'Italia all'Onu, il quale ha affermato che il nostro Paese è pronto ad assumersi il ruolo di guida nella missione dell’Onu. «Siamo pronti – ha spiegato l’ambasciatore Cardi – a contribuire al monitoraggio di un cessate il fuoco e al mantenimento della pace, pronti a lavorare all'addestramento delle forze armate in una cornice di integrazione delle milizie in un esercito regolare e per la riabilitazione delle infrastrutture».
Già nella mattinata di mercoledì 18 febbraio il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, riferendo in Parlamento, aveva dichiarato: «L'unica soluzione alla crisi libica è quella politica», contraddicendo di fatto quanto annunciato nei giorni scorsi, quando lo stesso Gentiloni disse che l’Italia era pronta a combattere nel quadro della legalità internazionale. Il titolare della Farnesina, così come l’Onu, ha invocato la formazione di un governo di unità nazionale libico, sostenuto dalla comunità internazionale che ponga fine alla guerra civile e stabilizzi il Paese.
Richiesta di fine embargo. Intanto il governo libico, quello eletto dal popolo e internazionalmente riconosciuto, ha chiesto all'Onu di porre fine all'embargo sulle armi, in vigore verso il Paese dal 2011 quando fu imposto contro il dittatore Gheddafi. Secondo il ministro degli esteri Mohammed al Dairi, la fine dell'embargo potrebbe aiutare la Libia a combattere il terrorismo, perché l'Isis minaccia la pace e la sicurezza non solo della Libia, ma anche dei Paesi africani limitrofi e dell'Europa. Una richiesta, quella della fine dell’embargo, a cui si sono accodati anche Italia, Egitto e Giordania, e nei confronti della quale l’Onu si è dimostrato tiepido per il timore che le armi finiscano nelle mani dei moltissimi gruppi armati e milizie che si combattono in Libia e che sono legati a singole tribù.
Le milizie libiche nel Paese. Da quando il regime di Gheddafi è crollato nel 2011 il Paese è caduto in balìa di una serie di milizie armate, che si contendono il territorio e soprattutto il suo sottosuolo, ricco di pozzi petroliferi. Per capire la situazione è utile fotografare la spartizione della Libia tra le varie tribù, così come ha ben evidenziato il sito lookoutnews.
A Tobruk, nella parte orientale del Paese, oltre all’esercito regolare ci sono le forze armate del generale Khalifa Haftr, alleate del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Si tratta di forze laiche che combattono l’islamismo più radicale, formatesi originariamente nei primi anni Ottanta in Ciad, finanziate dagli Stati Uniti, attraverso la CIA, con l’obiettivo di far cadere il regime di Gheddafi. Oggi sono appoggiate dall’Egitto, con il quale hanno coordinato le incursioni dei caccia dell’aviazione egiziana in territorio libico negli ultimi mesi. Nel grande calderone delle forze comandate dal generale Haftar ci sono, oltre all’aviazione e al Libyan National Army, il National Security Directorate (forza di polizia, si occupa di contrasto alla criminalità e ai traffici illeciti e ordine pubblico), l’unità anticrimine, le unità d’élite Al-Saiqa Forces, il Petroleum Facilities Guard (istituito nel 2012 per proteggere i giacimenti e i terminal petroliferi, è stato scalzato nella Cirenaica dalle milizie guidate da Ibrahim Jadhran, quest’ultimo avvicinatosi recentemente a Khalifa Haftar) e il Libya Shield Force. A sostenere Haftar c’è anche il Consiglio militare dei rivoluzionari di Zintan, nella quale si riconoscono oltre 20 gruppi armati ed è la seconda milizia militare più potente in Libia dopo quella di Misurata. Presidia i monti Nafusa, in un’area situata circa 140 chilometri a sud-ovest di Tripoli. Nella capitale in questi mesi i soldati di Zintan sono più volte venuti allo scontro con i miliziani di Alba Libica per il controllo dell’aeroporto.
In Tripolitania operano le milizie islamiste, alleate del governo di Tripoli, a cui fanno riferimento le milizie di Misurata, in cui sono riuniti oltre 230 gruppi armati dotati di pezzi di artiglieria pesante, carri armati e lanciarazzi, e quelle di Alba libica, una coalizione-ombrello che comprende la minoranza berbera, gruppi legati alla Fratellanza Islamica, e fazioni islamiste radicali.
La terza grande regione del Paese, la Cirenaica, è presa d’assalto dalle milizie jihadiste alleate ad Ansar Al Sharia (affiliata di alQaeda e considerata la milizia meglio armata della Libia) e allo Stato Islamico. I primi sono combattenti salafiti, che si rifanno alla Rivoluzione del 2011 e vogliono imporre la sharia (la legge islamica) nel Paese. Loro alleati sono i 12 battaglioni dotati di armi leggere e pesanti della Brigata Martiri del 17 febbraio. Accanto ad Ansar al Sharia ci sono gli affiliati del sedicente califfo alBaghdadi, che operano principalmente a Derna.
Nel sud della Libia, nella poco popolata regione del Fezzan governano i clan tribali arabi. Ci sono gli Amazigh, che non hanno alleati. Poi ci sono i Tuareg, che sostengono le milizia di Misurata e i Tebu, fedeli al generale Haftar. Questi clan si contendono il controllo di un’area vastissima situata al confine con l’Algeria e la Tunisia, dove si trovano alcuni dei giacimenti petroliferi più grandi del Paese.