E tanti lasciano l'Italia

Il disastro dell'università italiana Crollano iscritti e finanziamenti

Il disastro dell'università italiana Crollano iscritti e finanziamenti
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Cara università, non avrai il mio scalpo. Tra i giovani italiani sembra essere partito questo tam tam e i numeri confermano che i primi segnali ben visibili iniziano a farsi sentire. In dieci anni le matricole sono diminuite di 65mila, che significa un calo del 20 percento. Nel 2005 il tasso di passaggio dalle scuole superiori agli atenei era del 73 percento. Nel 2015 è precipitato al 49 percento. Del resto, c’è da capirli, i ragazzi del terzo millennio: solo poco più di metà dei laureati italiani (52,9 percento) risulta occupato entro tre anni dalla laurea, il dato peggiore nell'Unione europea dopo la Grecia e lontanissimo dalla media Ue a 28 che nel 2014 era dell'80,5 percento.

Meno finanziamenti alle università. Oltretutto, i vari governi alle prese con uno sbilanciamento demografico pesantissimo (cioè con sempre più pensioni da pagare), hanno silenziosamente disinvestito sull’università e sulla ricerca. I docenti sono passati da poco meno di 63mila a meno di 52mila unità, il personale tecnico amministrativo da 72mila a 59mila, i corsi di studio scendono da 5.634 a 4.628. Mentre il Fondo di finanziamento ordinario delle università è diminuito in dieci anni del 22,5 percento. E non è solo colpa della grande crisi, perché come affermano i ricercatori della Fondazione Res che hanno analizzato tutti questi dati, «in Italia, la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell'intervento pubblico».

 

 

L'alto tasso di abbandoni. A questo bollettino di guerra bisogna poi aggiungere un altro dato: quello relativo all’alto tasso di abbandoni. La Commissione Ue ha rivelato che l’Italia nel 2013 ha avuto una delle quote di abbandono universitario più alte in Europa (45 percento), e una delle più basse di laureati fra i 30e i 34 anni. E mentre l’Italia frena, gli altri accelerano. La crescita di laureati in Francia e Germania viaggia a ritmo doppio rispetto a noi, mentre la Polonia quest’anno ci sorpassa, avendoci raggiunto lo scorso anno a quota 5,6 milioni di laureati.

Come si spiega una così radicale disaffezione, grazie alla quale, secondo quanto ha scritto Federico Fubini sul Corriere della Sera, «per la prima volta dal 1945 il numero dei laureati disponibili per le imprese sta smettendo di crescere»? La ragione è presto spiegata: lo stipendio medio di un neolaureato al primo lavoro è di 1.004 euro in diminuzione secca rispetto al 2007 quando la prima busta paga media era di 1.300 euro.

 

 

Cervelli in fuga. Il calo degli iscritti va anche spiegato con il declino demografico, essendo l’Italia il paese insieme al Giappone con il più basso tasso di natalità al mondo. Ma purtroppo le cattive notizie non finiscono qui. Perché se il primo stipendio è tanto basso, al netto della fatica di assicurarselo, in tanti guardano altrove. E tra le migliaia di giovani che ogni anno si trasferiscono in particolare in Gran Bretagna, Germania e Svizzera, la quota dei laureati è molto alta. Nel 2015 in 145mila sono emigrati. È il numero che risulta all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Ma si sa che è un numero bugiardo, perché dai riscontri con chi si registra al sistema di welfare dei Paesi di accoglienza si vede che il flusso verso l’estero è tre volte maggiore. L’Italia sta trasformandosi davvero irrimediabilmente in un Paese per vecchi?

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