In fondo al mare è un disastro Dimezzato il numero dei pesci

La biodiversità è fondamentale per la sopravvivenza del pianeta. Ogni specie, dalle più piccole alle più grandi, contribuisce al mantenimento degli ecosistemi che salvaguardano la vita sulla Terra. Il concetto dovrebbe essere entrato nel bagaglio culturale di tutti noi, foss’anche solo per il messaggio di lancio della Esposizione Universale milanese. Dovrebbe perciò essere chiaro quanto sia profondo e grave l’allarme lanciato dal Wwf e dalla Zoological Society di Londra. Cerchiamo di capire meglio di che si tratta.
Le organizzazioni in campo. Sia il Wwf che la Zoological Society sono organizzazioni internazionali, scientifiche ed educative, il cui scopo è quello di proteggere e di promuovere la conservazione delle specie animali e dei loro habitat. Hanno collaborato insieme per redigere un report accurato sulla condizione dei salute dei mari e degli oceani e ciò che hanno scoperto (purtroppo non sorprendentemente) è molto negativo. Hanno monitorato il trend di 10.380 popolazioni di 3.038 specie diverse di vertebrati marini e sulla base delle osservazioni fatte e dei dati raccolti hanno formulato il Living Blue Planet Index. Secondo tale Indice, il popolamento marino, che include pesci, grandi mammiferi, ma anche uccelli acquatici, è diminuito del 49 percento dal 1970 fino ad oggi. Quindi, si è dimezzato nel corso di appena mezzo secolo. Ma non solo: si è rilevato che la popolazione di tonni e sgombri si è ridotta di quasi il 75 percento e ben 1.200 specie sono a rischio. Marco Lambertini, responsabile di Wwf International, ha spiegato: «L’attività umana ha gravemente danneggiato l’oceano: la cattura dei pesci, per esempio, è avvenuta a un tasso più veloce rispetto alla loro riproduzione». Alla pesca non regolamentata o di frodo si aggiungono poi i danni provocati dal surriscaldamento delle acque. Un problema enorme, se si pensa che entro il 2050 le alte temperature dei mari potrebbero diventare troppo calde per permettere la sopravvivenza della barriera corallina, peraltro ridottasi di più della metà negli ultimi trent’anni.
Cetrioli di mare. Nello specifico, le due organizzazioni hanno studiato con attenzione alcune specie, i cetrioli di mare, gli squali e le razze e le tartarughe, analizzando le variazioni relative al numero della loro popolazione. Cominciamo dai primi, i cetrioli di mare, o oloturie. Questi esseri dal nome peculiare sono degli echinodermi che svolgono un ruolo chiave nell’ecosistema marino. Regolano infatti la qualità dell’acqua, rivoltano i sedimenti marini (un po’ come i lombrichi), riciclano le sostanze nutritive e sono il nutrimento di diverse specie di crostacei. Ma sono anche considerati delle prelibatezze, soprattutto in Asia. Negli ultimi venticinque anni le pescherie specializzate in cetrioli di mare si sono moltiplicate e hanno sterminato molte colonie. Gli effetti sugli habitat sono stati devastanti: molti di questi sono diventati inabitabili per gli altri organismi. Nelle Galapagos, la popolazione dei cetrioli di mare è calata del 98 percento tra il 1993 e il 2004, nel Mar Rosso egiziano è calata del 94 percento, tra il 1998 e il 2001 e, nonostante l’introduzione del divieto di pesca nel 2003, si è ridotta di un altro 45 percento tra il 2002 e il 2007. Si sono fatti alcuni tentativi di ripristinare le antiche colonie e alcune specie commerciali stanno tornando nelle aeree in cui hanno sempre abitato. Ma non ci sono segni che indichino un vero e proprio ripopolamento.
Squali, razze e tartarughe marine. Una specie su quattro di squali e di razze è a rischio di estinzione, principalmente a causa della pesca eccessiva. Sarà molto difficile cercare di ripristinare il loro numero. Questi animali, infatti, crescono e si riproducono in modo molto più lento rispetto a tutti gli altri vertebrati. Intanto, la mancanza di squali e di altri predatori subacquei ha contribuito a un’ulteriore usura dell’ecosistema marino. La condizione delle tartarughe marine non è affatto migliore. Teoricamente, dovrebbero essere diffuse in tutte le acque tropicali e sub-tropicali. Il loro codice genetico le spinge a migrare per migliaia di chilometri, dalle loro aree di pesca fino ai litorali che ritengono sicuri per deporvi le uova. Ma la caccia dell’uomo e l’erosione delle spiagge, con la conseguente perdita dei luoghi di cova, hanno reso la loro sopravvivenza veramente ardua. Attualmente, quattro specie di tartarughe marine sono a rischio, o molto a rischio, di estinzione.
Dati che fanno pensare. Eppure i mari dovrebbero essere custoditi con cura, da parte degli uomini. I dati sono inequivocabili [qui la fonte]. Per tre bilioni di persone il pesce costituisce la principale fonte di proteine animali. Il 10-12 percento della popolazione mondiale vive grazie ai prodotti delle pescherie e delle acquacolture e il 60 percento vive entro 100 chilometri dalle coste. In sostanza, gran parte di noi vive grazie al mare, e sul mare. Tuttavia, la pesca indiscriminata, la scarsità di aree protette, i metodi di pesca irrispettosi nei confronti degli ecosistemi, come la pesca a strascico, hanno minato la ricchezza naturale dei nostri fondali. E ora ci troviamo a fare i conti con acque sempre meno popolate e sempre più ricche di anidride carbonica. Ciò non riguarda soltanto la salute degli animali e dei mari: riguarda anche noi esseri umani, la nostra alimentazione e, sul lungo periodo, la qualità della nostra vita.