il conflitto si inasprisce

Gerusalemme senza pace La dura reazione israeliana

Gerusalemme senza pace La dura reazione israeliana
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Violenza che genera violenza. Gli ultimi dieci anni di calma sono diventati ormai un ricordo. Dopo il rapimento, a giugno, dei tre ragazzi ebrei nei pressi di un insediamento di Hebron, tra Israele e Palestina si è innescato un meccanismo che ha portato, dopo la guerra su Gaza, ai tragici fatti degli ultimi giorni. Nell’ultimo mese sono stati compiuti una serie di attentati che ricordano gli anni bui dell’Intifada, con l’unica differenza che questa volta non c’è una regia che arriva dall’alto. Nessuno dei movimenti di resistenza palestinese, o terrore (dipende da quale punto di vista si assume), ha rivendicato la paternità degli attacchi. Solo felicitazioni ed esultanza da parte di Hamas e del Fronte per la Liberazione della Palestina, ma nessuna conferma ufficiale. Un fenomeno che alcuni analisti hanno definito Intifada dei lupi solitari

In Israele e nella Terra Santa tutta si è riaccesa la miccia dell’odio, da cui nessuno riesce a uscire. Una violenza nata, alimentata e cresciuta anche grazie all’indifferenza generale del mondo, che in questi anni ha sottovalutato la tensione latente che albeggiava nei cuori delle persone. Una politica, forse, fisicamente troppo distante da Gerusalemme, dove capi di Stato, ministri e politici si sono fermati troppo poco per toccare con mano la realtà del luogo. Visite superficiali, per compiacere entrambe le parti in causa, senza una precisa richiesta di chiarimenti sulle politiche adottate e, soprattutto, senza la pretesa che il negoziato di pace ripartisse. Le giuste condanne e l’indignazione per l’attentato alla sinagoga da parte del mondo intero suonano come qualcosa di molto tardivo. Il mondo si è seduto, e la violenza si è alzata.

Misure durissime. All’indomani dell’attentato alla sinagoga, dove hanno perso la vita quattro rabbini, la reazione del governo israeliano è durissima. È stato dato l’ordine di abbattere le case dei due attentatori, e 12 loro parenti sono stati arrestati. La rabbia si è riversata nelle strade e in molti quartieri di Gerusalemme ci sono stati scontri tra palestinesi e polizia, così come aggressioni da parte di coloni o ebrei ortodossi nei confronti di arabi.

Il premier Beniamyn Netaniahu ha annunciato misure durissime, nessuna pietà per chi semina terrore. Una chiamata alla battaglia su “Gerusalemme capitale eterna”, che richiede un governo di unità nazionale. Il ministro della Sicurezza Pubblica, Yitzhak Aharonovitch, ha dichiarato che verranno allentate le regole sul possesso di armi da parte di civili, in modo da permettere l’autodifesa. Una misura che interesserebbe tutti quegli israeliani che detengono un porto d’armi, come gli ufficiali dell’esercito in licenza o le guardie delle scuole e degli asili che si potranno portare le armi a casa. Va ricordato, però, che anche moltissimi coloni hanno il porto d’armi.

Ma la reazione più pesante è quella della destra ultranazionalista, capeggiata dal ministro dell’economia e dei servizi religiosi Naftali Bennet, che vuole un'operazione militare a Gerusalemme est per sradicare le infrastrutture del terrore.

Ciò significa guerra. Guerra come a Gaza, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Il ministro delle Finanze Yahir Lapid, centrista moderato, ha invocato la distruzione delle case di tutti i palestinesi sospettati di terrorismo. In compenso il comitato di pianificazione e costruzione della municipalità di Gerusalemme ha votato all’unanimità la costruzione di altre 78 case per coloni nell’insediamento di Har Homa, che sorge tra Gerusalemme e Betlemme.

Tutta la politica israeliana ha accusato il presidente palestinese Abu Mazen di essere il diretto responsabile del riaccendersi degli episodi di violenza che stanno tornando a insanguinare la terra dove nacque Gesù. In realtà, la condanna di Abu Mazen nei confronti dell’attentato di ieri è stata ferma. A confutare la tesi israeliana arriva anche lo Shin Bet, il servizio segreto israeliano, l’intelligence più potente e organizzata al mondo. Secondo il capo dello Shin Bet, Abu Mazen non ha alcun interesse a fomentare il terrorismo, e sono le incursioni sulla spianata delle Moschee a infiammare gli animi.

Voci di pace. Le uniche voci di pace sembra arrivino dalla Chiesa. Papa Francesco ha rivolto un appello «affinché si ponga fine alla spirale di odio e di violenza e si prendano decisioni coraggiose per la riconciliazione e la pace. Costruire la pace è difficile, ma vivere senza pace è un tormento». E dal Patriarcato latino di Gerusalemme, nel cuore della Città Vecchia, si alzano le voci del Patriarca, mons. Fouad Twal e del suo vicario per Gerusalemme, mons. William Shomali. Entrambi condannano la violenza e chiedono un nuovo impegno, volto alla ricerca della pace attraverso una giusta soluzione politica che arrivi alle radici profonde del conflitto: «Siamo profondamente rattristati dall’aumento della violenza a Gerusalemme. Condanniamo ogni azione violenta e invitiamo Israeliani e Palestinesi al rispetto reciproco e a lavorare insieme per trovare una soluzione politica al conflitto. La spirale delle violenze, delle vendette e delle rappresaglie nuoce gravemente al processo di pace».

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