Sul giornalismo irresponsabile (e sulla morbosità dei lettori)
Riproponiamo un articolo di Luigi Manconi, politico, sociologo e critico musicale, apparso su “Il Foglio” dell’8 luglio 2014 nella rubrica: “Politicamente correttissimo”. È un interessante giudizio sull’uso mediatico di intercettazioni telefoniche, sul deficit di garantismo del nostro sistema giuridico e sul giornalismo di oggi che ha rinunciato al suo ruolo di selezione. Alla luce del caso Yara, di cui perfino i giornali locali o le edizioni locali di giornali nazionali, continuano a parlare in maniera oscena, un contributo di intelligenza che aiuta a riflettere.
Con frequenza implacabile i giornali offrono paginate e paginate dedicate alle trascrizioni di intercettazioni telefoniche. Un inesausto flusso di informazioni le più diverse: strettamente necessarie o fantasticamente superflue, legittime o illegali, vere o smaccatamente fraudolente, di argomento economico o schiettamente sentimentale, di interesse indubitabilmente pubblico o di natura esclusivamente privata, privatissima, intima. E poi attori principali e comprimari, tutti intercettati, figuranti e comparse, segretarie e passanti, figli e amanti, complici e voyeur, confidenti e fedifraghi. Come in un qualunque interno domestico o in un qualsivoglia luogo di lavoro.
Resistere a tutto ciò è francamente impossibile, ammettiamolo. Chi sostiene di non leggerle, quelle pagine, è un bugiardo matricolato. Ma come si fa a non scorrere quei dialoghi così ordinari e fin dozzinali, che appaiono – e non potrebbe essere altrimenti – tanto più fascinosi quanto più familiari e quanto più simili a noi? Come si fa a non scrutare le meschinità e le miserie degli infelici intercettati, con l’insidioso sollievo e il sottile panico di sapere che, se oggi siamo gli scampati, in futuro potremmo essere noi le vittime?
Dunque è fatale che si leggano con un misto di vergogna e di sadismo, con un intreccio di timore e di piacere sordido, dettagli su tradimenti e godimenti, su meschine soperchierie e gigantesche ambizioni, su reati piccoli, medi o grandissimi o addirittura inesistenti. È questa diffusa Morbosità Nazionale che spiega, almeno in parte, l’acceso dibattito sulle intercettazioni telefoniche: oltre, evidentemente, al profondo deficit di garantismo del nostro sistema giuridico e della mentalità collettiva. Ma dietro tutto ciò, si profilano cruciali dilemmi di ordine giuridico.
L’interesse pubblico a conoscere la notizia è (non solo nel nostro ordinamento) il criterio che giustifica le limitazioni della riservatezza, con modulazioni diverse a seconda della notorietà della persona. Ma – come ha sottolineato Antonello Soro, Garante della privacy – siamo sicuri di riuscire sempre a distinguere “ciò che è di pubblico interesse da ciò che è soltanto di interesse del pubblico?”. Si può rivendicare una qualche opacità del privato rispetto alla logica, essa sì totalitaria, dell’uomo di vetro? Quale è il limite tra cronaca e voyeurismo? Se depurato delle strumentalizzazioni di parte, il dibattito sulle intercettazioni ruota tutto intorno a questo punto.
Si dovrà, infatti, discutere degli aspetti processuali, per evitare che di questo strumento investigativo – già previsto come residuale – si faccia un uso eccessivo, per ricercare la notizia di reato anziché per individuarne i responsabili, con un’inammissibile pesca a strascico nella vita privata. E si dovrà discutere di come rendere realmente selettiva l’udienza stralcio, evitando che nel processo rifluiscano conversazioni del tutto ininfluenti ai fini del giudizio. Questo contribuirebbe, sicuramente, a limitare le occasioni di divulgazione, già nelle aule di tribunale, di dettagli di vita privata nient’affatto utili all’accertamento del reato. E, però, in assenza di un vaglio realmente selettivo da parte del giornalista, neanche questo eviterebbe il “giornalismo di trascrizione”. Un metodo, quest’ultimo, che finisce col privare il cronista di reale autonomia nella valutazione della rilevanza della notizia, sempre più schiacciata sulla sua dimensione penale (ancora Soro).
Perché – ed è questo il punto – il peso penale o processuale di una conversazione o, in genere, di un fatto, non coincide sempre e necessariamente con l’interesse pubblico alla sua conoscenza e con la sua utilità allo sviluppo del dibattito pubblico in una società democratica. Un dato rilevante in termini investigativi può non aggiungere nulla alla comprensione di una vicenda da parte del pubblico e, soprattutto se capace di svelare aspetti intimi della vita privata, dovrebbe essere protetto (nel “caso Gambirasio”, era proprio indispensabile indulgere così tanto sulla paternità del fermato?).
Il ruolo del giornalista è tutto qui: nella selezione delle notizie e nella scelta del modo di pubblicarle, evitando quella osmosi tra processo e stampa; quel trial by media che finisce per mediatizzare il processo e, per altro verso, per processualizzare la cronaca. Con effetti dannosi non solo per i terzi, non indagati, ma anche e, per certi versi, soprattutto per l’imputato, che ha diritto a essere giudicato non sui giornali e non in un clima colpevolista quale quello spesso costruito dai media.
Lo ha ribadito la Cedu, chiedendo di bilanciare il diritto di (e all’) informazione non solo con la privacy ma anche con la presunzione di innocenza. E richiamando l’esigenza di aggiornare le notizie secondo il loro sviluppo, soprattutto in un contesto in cui l’informazione passa prevalentemente dal web. E in cui, quindi, a distanza di anni, chi è stato definitivamente assolto può continuare a essere etichettato come colpevole per la permanenza in rete di notizie non aggiornate o che comunque hanno più risalto di quelle relative alla sua innocenza. E’ anche questo il senso profondo del diritto all’oblio: a non ridurre, cioè, una intera vita a un dettaglio spesso poco rappresentativo della persona.
E’ il diritto, insomma, a una biografia non sfregiata e nemmeno deformata.