«Non sono l'assassino»

Bossetti condannato all'ergastolo

Bossetti condannato all'ergastolo
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Massimo Bossetti è stato ritenuto responsabile dell'omicidio di Yara Gambirasio e condannato alla pena dell'ergastolo. La lettura della sentenza è arrivata venerdì 1 luglio alle 20.35 dopo dieci ore di camera di consiglio, ed è durata meno di quattro minuti. Appena il presidente della Corte Antonella Bertoia ha pronunciato la parola "ergastolo", Bossetti, che fino a quel momento aveva assistito impietrito, ha alzato gli occhi al cielo e in aula è sceso un silenzio irreale. Subito dopo è stato portato via dagli agenti. In aula era presente anche la moglie, Marita Comi, che dopo aver sentito la sentenza ha pianto ed è rimasta a lungo abbracciata con la sorella del muratore, Laura Letizia. Marita Comi si è allontanata poi con gli avvocati.

Il muratore di Mapello è stato ritenuto responsabile del reato di omicidio volontario, aggravato dalla minorata difesa della vittima e dalle crudeltà e dalle sevizie. Dovrà anche risarcire le parti civili, rappresentate dai genitori e dai fratelli di Yara, con un milione di euro. La Corte d’Assise ha inoltre stabilito l’interdizione legale dell’intera durata della pena e la sospensione della potestà genitoriale. È stato assolto, invece, dal reato di calunnia, cioè dall’aver accusato del delitto un suo compagno di lavoro, «perchè il fatto non sussiste».

 

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[Antonella Bertoja, presidente della Corte d'Assise]

 

Le prime reazioni. La prova del Dna è stata «decisiva», ha detto il procuratore di Bergamo Massimo Meroni commentando la condanna di Bossetti. «Siamo arrivati a metà strada nel senso che questa è una sentenza di primo grado, è stata un’inchiesta difficile e la collega Ruggeri è stata fantastica».

Di tenore opposto le considerazioni dell’avvocato Claudio Salvagni, difensore di Bossetti che ha parlato di «sentenza già scritta». «Sono amareggiato – ha detto Salvagni - perché la convinzione dell’innocenza è forte. Noi siamo veramente convinti della sua innocenza. Queste 45 udienze non hanno restituito nessuna prova a suo carico. È un processo indiziario». Salvagni ha poi rivelato che le uniche parole pronunciate da Bossetti non appena sentita la sentenza sono state: «Non è giusto, è una mazzata, avevo fiducia nella giustizia». «Era convinto che sarebbe stato assolto», ha concluso l'avvocato. L'altro difensore, l'avvocato Massimo Camporini ha annunciato il ricorso in appello.

I genitori di Yara non erano presenti in aula. Mamma Maura, informata dell'esito del processo dai legali della famiglia, Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo, ha detto: «Ora sappiamo chi è stato, anche se siamo consapevoli che Yara non ce la riporterà indietro nessuno». Pezzotta e Pelillo si sono detti soddisfatti della sentenza e hanno ringraziato le forze dell’ordine. I genitori di Yara Gambirasio, hanno spiegato i due legali, non hanno «mai avuto dubbi sulla colpevolezza» di Massimo Bossetti da quando è stato arrestato. Fulvio Gambirasio e sua moglie hanno aspettato l’esito di questo processo «con serenità, e così hanno accolto la sentenza».

Benedetto Maria Bonomo, avvocato della sorella e della madre di Bossetti, Laura e Ester, ha dichiarato che le sue assistite «prendono atto di un provvedimento che le addolora profondamente, per la sua intrinseca portata e gravità». «Attraverso la mia voce – ha aggiunto Bonomo - la famiglia desidera ciononostante ribadire la propria fiducia nella magistratura italiana, esprimendo la speranza che l’innocenza di Massimo Bossetti verrà acclarata e dichiarata nei successivi gradi di giudizio. I familiari desiderano altresì ringraziare tutte le persone che sono rimaste loro vicine in questi anni di tensione e difficoltà».

 

L'avvocato della famiglia Gambirasio Enrico Pelillo in occasione della quarantacinquesima, ed ultima, udienza del processo a carico di Massimo Bossetti per il quale sarà emessa la sentenza per l'omicidio di Yara Gambirasio, 1 luglio 2016. ANSA/PAOLO MAGNI

[L'avvocato della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo]

 

Il giorno più lungo. Il giorno più lungo di Massimo Bossetti era iniziato venerdì mattina alle 9, quando era comparso davanti alla Corte d'assise per la quarantacinquesima ed ultima volta. Prima che gli otto giudici (sei popolari e due togati) si richiudessero in camera di consiglio, aveva letto una dichiarazione. Un ultimo, estremo tentativo di convincerli che lui con l'orribile omicidio di Yara Gambirasio non c'entrava, che era solo un padre di famiglia come tanti, senza insospettabili zone d'ombra. Sulla sua testa pendeva il carcere a vita. La pm Letizia Ruggeri l'aveva chiesto sulla base dei risultati di un'indagine fiume, partita il 26 febbraio 2011, il giorno del ritrovamento del cadavere della tredicenne nel desolato campo di Chignolo d'Isola. Tutto ruotava attorno al fatidico dna. La “prova regina”, secondo l'accusa. Solo un indizio e nemmeno tanto attendibile, aveva ribattuto la difesa formata dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini.

La supplica di Bossetti. Nelle dichiarazioni spontanee, Bossetti aveva parlato per quaranta minuti scarsi e per tre volte aveva ripetuto: «Non sono l'assassino». In un'occasione lo aveva fatto girandosi verso il pubblico e aggiungendo: «Sia ben chiaro». Un discorso accorato, il suo, nel quale in parte aveva ribadito quanto aveva detto fin dal primo giorno: «Non confessero mai un delitto che non ho commesso. Questa accusa per me è infamante». Poi aveva aggiunto: «Sarei felice di incontrare i genitori di Yara, capirebbero che l’assassino della loro figlia è ancora in libertà e questo sarebbe un grande motivo di dolore per loro». Rivolgendosi direttamente alla corte, Bossetti era quindi entrato nel merito del processo: «Ipotizziamo anche che avessi potuto aver fatto questa cosa e in seguito aver avuto un’amnesia, ipotizziamo che avessi rimosso tutto di quel giorno maledetto, ma com’è possibile condannarmi senza una dinamica, senza un movente? Non ricordo cosa ha fatto quel giorno, per me i giorni erano tutti uguali e probabilmente anche quella sera avrò cenato a casa, come facevo sempre». Infine, aveva lanciato un estremo appello a proposito del dna: «Questo benedetto dna sono stanco di sentirlo, mi avete chiesto mille volte com’è finito lì, e io mille volte ho risposto che non può essere il mio. Non solo non ho ucciso Yara ma non l’ho mai nemmeno conosciuta. Io v supplico di fare una nuova verifica del dna. Quale colpevole chiederebbe di fare un’estrema prova del nove? Sarò uno stupido, sarò un cretino, sarò un ignorantone ma non sono un assassino». Dopo aver ringraziato i giudici per aver ascoltato con pazienza tutto quanto era emerso al processo, il muratore di Mapello aveva concluso così: «Mi rendo conto che sia molto difficile assolvere Bossetti, ma è molto difficile anche condannare un innocente. Se mi condannate sarà il più grande errore giudiziario del secolo». Prima dell'intervento dell'imputato, i suoi difensori Claudio Salvagni e Massimo Camporini, avevano presentato una memoria riassuntiva sul dna. Il procuratore Meroni (il pm Letizia Ruggeri era arrivata in ritardo) e l'avvocato Pelillo si erano opposti ma il presidente della Corte Antonella Bertoja aveva ammesso la memoria agli atti.

 

Come si è arrivati a Bossetti

26 novembre 2010. Yara Gambirasio sparisce nel nulla il 26 novembre 2010, a Brembate Sopra. È andata in palestra, a casa la aspettano per le 18.45, le 19 al massimo. «Vado perché la mamma non vuole che faccia tardi» dice alle amichette prima di salutarle per l'ultima volta. Ma Yara a casa non torna. Alle 19.11 mamma Maura la chiama, sente un paio di squilli a vuoto e poi il collegamento si interrompe. Il cellulare della ragazzina non sarà più raggiungibile. La famiglia si allarma, papà Fulvio va dai carabinieri. Scattano le ricerche, che proseguiranno brancolando nel buio per tre mesi, tra mille ipotesi e nessuna traccia concreta. Il 4 dicembre, con un blitz in mare su un traghetto diretto in Marocco, i carabinieri arrestano Mohammed Fikri. Lo inguaia una frase intercettata, che in un primo momento viene tradotta con «Non l'ho uccisa io». Ma l'uomo nega, chiede una nuova traduzione che dà esiti ben diversi. La pm Ruggeri chiede la scarcerazione. La sua vicenda si trascinerà a lungo, con ripetuti solleciti del gip Ezia Maccora ad approfondire. Fino a una nuova perizia linguistica che sancirà la sua estraneità. Fikri esce di scena e con lui tramonta la pista del cantiere di Mapello, dove il marocchino lavorava e dove i cani molecolari portarono gli investigatori all'indomani della scomparsa.

A fine dicembre i genitori rivolgono un appello a chi ha ghermito la loro bambina: lasciatela andare, rimandatecela a casa. Tutto inutile. Il 26 febbraio arriva la notizia tanto temuta. Un appassionato di modellismo vede cadere il suo aereo tra le erbacce del campo di Chignolo: va a recuperarlo e si imbatte nel corpicino. Sul posto arrivano tutti: forze dell'ordine, giornalisti, curiosi. I lampeggianti di carabinieri e polizia squarciano il calare della sera, le sirene spezzano il pesante silenzio di via Bedeschi. Il campo viene dichiarato off limits, si va avanti con i rilievi per tutta la notte.

 

Ruggeri processo a Bossetti arringa difensiva

[Il pubblico ministero Letizia Ruggeri]

 

La grande caccia a Ignoto 1. In laboratorio appare una traccia genetica, sui leggins e sugli slip, in coincidenza con uno dei tanti tagli inferti dall'assassino. È un dna maschile, da subito denominato  “Ignoto 1”. Di chi è? Mistero. La pista giusta la apre la polizia, che passa al setaccio i frequentatori della discoteca Sabbie Mobili, distante duecento metri dal campo maledetto. Tra questi c'è Damiano Guerinoni. Il suo dna è molto simile a quello di Ignoto 1. Si scava nella sua famiglia, risalendo a ritroso nell'albero genealogico. Fino ad arrivare a Giuseppe Guerinoni, di Gorno. Secondo la scienza è il padre di chi ha lasciato la traccia sulla bambina. Però c'è un dettaglio non da poco: Guerinoni ha due figli, ma non c'entrano con il delitto. I loro profili genetici sono differenti. Di qui l'ipotesi: l'ex autista, deceduto nel 1999, potrebbe aver avuto un figlio illegittimo. Si comincia a cercarne la madre: una caccia che dura dal 2012 alla tarda primavera del 2014.

 

camporini salvagni bossetti foto bedolis 15 aprile

[Gli avvocati difensori di Bossetti, Paolo Camporini (a sin.) e Claudio Salvagni]

 

La svolta. Dopo decine di migliaia di prelievi, dal pagliaio del dna spunta l'ago giusto. All'Università di Pavia si accorgono di un errore fatale: i 532 profili genetici di persone emigrate dalla Val Seriana all'Isola bergamasca sono stati confrontati con il dna mitocondriale di Yara, non di Ignoto 1 (peraltro mai isolato). Si procede a un confronto con il dna nucleare e arriva l'atteso “match”: la madre dell'uomo più ricercato d'Italia è Ester Arzuffi. È il 13 giugno 2014. Due giorni dopo i carabinieri fermano il figlio Massimo Bossetti durante un finto controllo dell'etilometro. Il suo dna corrisponde a quello di Ignoto 1. Il 16 giugno scatta l'arresto in un cantiere di Seriate: Bossetti lavora nell'edilizia, proprio il settore dove gli inquirenti avevano frugato anche a causa delle particelle di calce trovate sugli indumenti di Yara. Il ministro degli Interni Alfano esulta. «Abbiamo preso l'assassino di Yara» annuncia, calpestando la presunzione di innocenza. Bossetti invece si dichiara subito estraneo al delitto e continuerà a farlo, senza mai dare segni di cedimento.

 

Marita Comi processo Bossetti arringa difensiva

[La moglie di Bossetti, Marita Comi]

 

La moglie Marita gli sta vicino, ci mette la faccia in tv: la sua avvenenza buca lo schermo, il gossip si scatena. Anche la procura ci mette del suo, tirando fuori presunte infedeltà comunque posteriori all'omicidio. Il Ros scova immagini ricavate da alcune telecamere attorno alla palestra: è il Daily di Bossetti, eccolo lì il muratore che gira attorno all'edificio come lo squalo attorno alla preda. La difesa nega: macché, non è il suo. E poi, dicono gli avvocati, Bossetti passava sempre di lì per tornare a casa, a Mapello. Il suo cellulare quel giorno si spegne alle 17.45. «Era scarico» ripete l'imputato. La pm non gli crede, gli chiede dove fosse quella sera. «Non ricordo, è passato troppo tempo» dice Bossetti, che nega di aver mai conosciuto Yara. Il padre Fulvio sì, ma solo di vista.

Il processo inizia il 3 luglio 2015: si trascina per un anno, senza colpi di scena e circondato da un clamore mediatico senza precedenti, tra sparate clamorose e scenari mai chiariti, che resteranno sullo sfondo. Il pubblico si divide in due fazioni, colpevolisti e innocentisti. La pm chiude la requisitoria chiedendo il massimo della pena, pur ammettendo che mancano un movente preciso e la dinamica del delitto. La polemica divampa sui social, in tribunale si assiste a ressa e litigi. Un clima teso, che spinge la Corte a vietare l'ingresso a telecamere e fotografi anche il giorno della sentenza. Nell'era dell'immagine e del selfie selvaggio, la parola fine è stata scritta su uno sfondo nero.

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