Un reportage della Bbc

Che fine han fatto gli Yazidi

Che fine han fatto gli Yazidi
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L’inverno avanza sulle montagne del nord dell’Iraq, ma gli yazidi sono ancora lì, incalzati dai fucili dello Stato Islamico e, purtroppo, sempre più dimenticati dal resto del mondo. Sembra cambiata poco la situazione dalla scorsa estate, quando l’avanzata delle armate del Califfo portava su tutti i giornali il dramma di questo gruppo religioso, perseguitato da secoli per le proprie convinzioni di dottrina e costretto a riparare sul Monte Sinjar mentre sorgeva lo Stato Islamico. Una giornalista della Bbc, Nafiseh Kohnavard, è riuscito a salire su questo massiccio e ad incontrare chi è ancora lì, accampato tra tende, disordine e tanta paura.

L’Isis infatti ha circondato un’altra volta la zona, le poche armi leggere in possesso degli yazidi riescono a fare ben poco, così tantissime famiglie si trovano frequentemente senza acqua e cibo. Ad agosto, mese della prima fuga, a soccorrere questa gente erano elicotteri britannici e americani, ora sono rimasti soltanto i militari iracheni a portare loro qualcosa. «Vivevamo nel nostro villaggio, tutto andava bene. poi abbiamo sentito che l’Isis aveva preso Mosul», racconta Aliya Ali, ragazzina che non avrà neanche 10 anni. Vive in una tenda assieme alla sua famiglia: sono in tanti, c’è disordine. Ma i suoi ricordi della fuga sono essenziali ed ordinati: «Portavo per mano mia sorella e le nostre borse, sentivo i proiettili passarci sopra la testa come fosse pioggia». Le fa eco il padre: non c’è cibo, non c’è gas per scaldarsi, non c’è nessuno che si muova per loro: «Mio padre ce l’aveva detto di prepararsi: quello che avevamo visto succedere a Mosul, ai cristiani e agli sciiti, sarebbe successo a noi».

Ma la storia dell’assedio yazidi è anche la storia di Haydar, ragazzino di 14 anni che imbraccia già il fucile e gira assieme ai militari che presidiano le montagne. Racconta di sé e sorride, ma dalle sue parole emerge un fondo di paura: «Mi manca la scuola, ma non è il tempo per andarci. Occorrerebbe imparare ad usare le armi». Un giubbotto porta munizioni copre un’appariscente maglia del Milan, la sciarpa al collo prova a mimetizzarlo un po’ di più. Con orgoglio mostra alla giornalista della Bbc come si smonta e rimonta un fucile: «Mio padre è qui, mia madre in un’altra città. Vorrei che potessimo essere tutti assieme. Il nostro scopo è quello di liberare il Monte Sinjar dallo Stato Islamico. Chi sono loro? Sono tutti mostri».

«La situazione di questa gente è realmente tragica. Hanno perso tutto», spiega alla Bbc Ahmed Thwenee, pilota di un elicottero dell’esercito iracheno. Mostra come si svolgono le loro missioni: caricano cibo e acqua sui loro velivoli, attraversano zone di guerra e scaricano tutto sui monti, dove la gente si ammassa per recuperare qualcosa da mangiare. Non di rado tornano indietro caricando qualcuno da portare in luoghi più sicuri. Anzi, incalza il pilota, è una delle parti del lavoro che si fa sempre più importante. «Non solo è difficile il nostro viaggio, ma anche pericoloso, poiché per metà del tragitto troviamo gente che ci spara contro», spiega. «La nostra resta però una missione umanitaria. La cosa più difficile è che non si riescono a controllare le persone sulle montagne. Abbiamo bisogno di qualcuno che le controlli».

 

 

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