Il mercato farmaceutico vola ma le multinazionali tremano
Il mercato farmaceutico mondiale è un settore che non conosce crisi e con numeri da capogiro: nel 2003 il giro d’affari è stato stimato in 502 miliardi di dollari; nel 2013 si è toccato quota 962 miliardi di dollari. Una crescita impressionante, che anche al netto dell’inflazione – più superficialmente, al netto dell’aumento dei prezzi – è calcolabile in un aumento del 72%. I dati sono stati presentati nel rapporto Global Pharmaceutical Industry 2013-2018: Trend, Profit and Forecast Analysis, che ha successivamente confermato che il trend riscontrato nell’ultimo decennio è destinato a continuare, salendo fino a 1.226 miliardi di dollari di spesa mondiale per i farmaci nel 2018, con un nuovo incremento del 25%. Come è spiegato nel rapporto, principale motivo di questa implacabile crescita risiede nel fatto che sempre più persone al mondo possono ora accedere alle spese mediche. I Paesi in via di sviluppo e le economie emergenti, una volta emarginati dal mercato farmaceutico perché non redditizi, sono ora invece i mercati principali e con le maggiori stime di crescita, mentre i Paesi più ricchi restano stabili. Eppure Big Pharma trema.
[La tabella di Wikipedia delle 20 multinazionali del farmaco che compongono la Big Pharma]
Chi è Big Pharma e perché trema. Big Pharma è, semplicemente, il cartello che riunisce le 20 principali multinazionali farmaceutiche. Di questo fanno parte società come le americane Pfizer (con un fatturato da oltre 52 miliardi di dollari) e la Procter & Gamble (8 miliardi di dollari), le svizzere Novartis (28 miliardi di dollari) e La Roche (25 miliardi), la francese Sanofi-Aventis (31,6 miliardi) e la tedesca Bayer (10,5 miliardi). Accusata da molti di essere una vera e propria lobby in grado di determinare il futuro della sanità mondiale, Big Pharma ha in mano la maggior parte dei brevetti farmaceutici. Ma attualmente non se la passa molto bene. Nonostante il mercato sia, come detto, in netta crescita, Big Pharma rischia seriamente di perdere quote fondamentali nel settore farmaceutico globale.
Il primo problema che si trova ad affrontare è quello della scadenza, già avvenuta o imminente, di molti brevetti. Nel 2012 sono addirittura 30 i brevetti di farmaci di largo consumo scaduti, nel 2013 sono stati 22 e nell’anno in corso ne scadranno ulteriori 26. A causa di questo, nel 2016 Big Pharma avrà perso 126 miliardi di dollari, oltre 25 all’anno. A far tremare Big Pharma è anche l’ascesa costante dei cosiddetti “farmaci generici”, ovvero quelli non coperti da brevetto, che vedono costantemente aumentare le loro quote di mercato. Si è stimato che da qui al 2016, oltre il 70% dei 200 miliardi di dollari di incremento del mercato mondiale saranno a vantaggio dei farmaci generici, che passeranno quindi dai 242 miliardi di dollari di fatturato del 2011 ai possibili 430 miliardi del 2016.
L'Aspirina è certamente il farmaco più noto della casa farmaceutica tedesca Bayer
Il Maalox è uno dei medicinali di punta della Sanofi-Aventis
Il Voltaren è certamente il prodotto più noto della Novartis
Il Viagra è il farmaco che ha più fatto parlare di sé al mondo e ha dato ulteriore notorietà al marchio Pfizer
Le strategie di Big Pharma. Big Pharma potrebbe tentare di aggiudicarsi nuovi brevetti, ma la produzione di farmaci è molto lenta e terribilmente costosa. Di media, occorre circa un miliardo di dollari d’investimento per la produzione di un nuovo farmaco e non si sa neanche se esso riuscirà a passare poi tutte le fasi dei trial clinici per la messa in vendita. Solamente negli Stati Uniti, le aziende farmaceutiche investono ogni anno qualcosa come 65 miliardi di dollari per ottenere meno di 20 farmaci nuovi, spesso non innovativi. Attualmente, prima di poter immettere sul mercato un nuovo farmaco, bisogna superare un complesso iter, denominato appunto trial clinico, e suddiviso in quattro fasi. Nella prima fase si valuta la possibile tossicità del farmaco; nella seconda si compiono ulteriori test per iniziare a misurare la dose di farmaco necessaria perché sia efficace; nella terza, la più complessa, si compiono indagini ulteriori su effetti collaterali e sicurezza del farmaco, in seguito alla quale il farmaco viene finalmente messo sul mercato; nella quarta, infine, c’è la sorveglianza successiva alla vendita.
Big Pharma ritiene insostenibile questo iter, sia economicamente che scientificamente. Per questo sta, parallelamente, portando avanti due diverse strategie: la prima punta alla produzione di nuovi farmaci per malattie rare all’interno dei “paletti” normativi in vigore, farmaci destinati ai mercati dei Paesi più ricchi e, dunque, più remunerativi sui piccoli numeri; la seconda invece prevede pressioni ai governi mondiali per ottenere una deregulation che abbatta tempi e costi dell’innovazione. Già nel 2012, l’autorevole esponente della medicina americana Andrew von Esenbach, sulle pagine del Wall Street Journal, si era esposto attaccando duramente gli attuali trial clinici. Secondo von Esenbach, i cittadini sono persone adulte, in grado di valutare i rischi e le opportunità. Per questo va riconosciuta loro la libertà di cura: una volta che un nuovo farmaco ha passato la fase uno (quella della non tossicità), va messo sul mercato e affinato col tempo. I consumatori diventerebbero però, in questo modo, delle vere e proprie cavie, senza contare che non è vero che sarebbero liberi di scegliere perché la malattia è uno stato di costrizione che porta la persona ad una scelta avventata e poco ragionata. In più, l’80% dei farmaci che passano la prima fase, non riescono poi a superare quelle successive.
Questa tesi “liberista”, che punta a limitare il controllo ex ante e ad abbattere i costi dell’innovazione, è molto estrema ed è stata limata da altri esponenti della Big Pharma, più diplomatici, che chiedono invece di lasciare l’attuale sistema dei trial clinici, ma di socializzarlo attraverso un sistema di finanziamento con fondi pubblici, in modo tale che l’intero peso della ricerca e dell’innovazione farmaceutica non gravi unicamente sulle aziende del settore.