Il nostro dolore visto dall'America: Bergamo su New York Times e Washington Post
di Matteo Rizzi
«Questa è la parte più amara». Si conclude così un lungo servizio del New York Times dove la nostra città è citata un numero di volte direttamente proporzionale alla criticità della situazione che stiamo vivendo. Sono parole attribuite alla moglie di uno dei tanti pazienti deceduti da quando è iniziata l'emergenza Coronavirus e collocate come chiave di lettura di tutto il lungo articolo. Ovvero, la parte più amara è l'impossibilità, di fronte a questa strage, di onorare a dovere i cari che se ne vanno, il dover trascorrere un lutto in quarantena, la necessità di operare una selezione tra familiari per osservare le onoranze funebri. L'articolo insiste a lungo sulla coltre di morte che ha investito le nostre valli e la nostra città. Attraverso quelle parole così fredde e cronachistiche, scritte in una lingua che molti di noi nemmeno comprendono, ci sono le dimensioni della tragedia che stiamo vivendo. Non è il solo servizio americano che riguarda la nostra città nello specifico: sempre di questi giorni ha scritto di Bergamo anche il Washington Post.
Bergamo, capoluogo di provincia e, soprattutto negli ultimi anni, città dal fervente turismo, non è mai stata abituata a trovarsi sui giornali internazionali, figuriamoci sulle principali testate americane. E tra un genitivo sassone e un un'inversione interrogativa fa davvero impressione leggere nomi e cognomi dal suono familiare, sentir parlare di Zogno, di Castiglione d'Adda: toponomastica di una strage in corso, racconti di paesi che difficilmente torneranno agli onori della cronaca. Una triste declinazione dei quindici minuti di popolarità. L'articolo racconta della sofferenza di una città che guarda la gente andarsene senza nemmeno un ultimo saluto, racconta del dolore di medici e infermieri che trasmettono gli ultimi messaggi dei nipoti ai nonni che se ne vanno, dei mariti alle mogli. Racconta di sepolture solitarie, di schiere di bare in legno cerato che in una danza macabra senza partecipanti attendono la loro cremazione. Racconta dei morti invisibili di questi giorni, delle decine e decine di pagine di necrologi su L'Eco di Bergamo, silenziose tracce di vite passate e altrove raccolte solo dai freddi bollettini quotidiani di Borrelli, dagli indici di mortalità. Racconta di molte persone che se ne sono andate in quanto «anziani e/o con patologie pregresse», la cui morte è stata poco più che un sollievo per i «giovani in buona salute» che a quel dato si aggrappano per sentirsi meno vulnerabili. Racconta ovviamente dell'eroismo dei medici, delle difficoltà del sistema sanitario, dei timori dei becchini che ancora non hanno avuto informazioni precise sul rischio di ritrovarsi contagiati da persone defunte.
Dopo neanche un mese e mezzo di emergenza - a partire dal 31 gennaio, data ufficiale dell'inizio dell'epidemia, anche se a quell'altezza dovevamo ancora decidere se preoccuparci o meno dei due cinesi positivi a Roma - il web brulica di post e commenti della serie "ecco cosa abbiamo imparato da questa situazione". Un modo legittimo di cercare la forza di andare avanti, perché la morale è sempre alla fine di ogni fiaba, anche di quelle più cupe, e quindi ricapitolarla ci può dare l'illusione di essere arrivati alla fine di un percorso. Ma queste parole così fredde, così straniere, in una lunga ma per forza di cose sommaria narrazione esterna della nostra situazione, in cui così tanto si insiste sul dolore di fronte all'impossibilità di dare la dovuta dignità alla morte dei nostri cari, arrivano come delle strali a ricordarci che di fronte alla morte non c'è nulla, in fondo, da imparare. O che, perlomeno, imparare qualcosa non serve a nulla.
E leggendo queste parole abbiamo l'impressione di vedere il riflesso delle nostre angosce. Nell'inevitabile freddezza della relativizzazione, unico modo che abbiamo - ora, così coinvolti emotivamente - di osservarci dalla prospettiva degli altri, ci rendiamo conto della compassione di chi osserva una città in ginocchio, unica cosa che dall'altra parte dell'oceano trovano legittimo raccontare. Non c'è traccia dei nostri disperati tentativi di trarre degli insegnamenti, di racimolare le forze e di aggrapparci a quel poco di voglia che ci resta per rialzarci. Il nostro slancio vitale non conta nulla. Alla storia sarà consegnato altro. Di fronte a questa città, che vista da Washington o New York ha tutte le sembianze di una fossa comune, non c'è ancora nulla da imparare. È semplicemente troppo presto. Questo è il momento del dolore. In onore al nostro essere umani, alla necessità umana di vivere a pieno ogni esperienza, forse la cosa giusta da fare ora è soffrire, lasciare che le ferite sanguinino, cercare di farlo con dignità. È anche questa la responsabilità che abbiamo di fronte a un momento storico. Piaccia o no. Alla lezione da trarre ci penseremo dopo, alla voglia di rialzarci pure.
Ora c'è da fare i conti con la morte. Quella vera, quella che miete e costringe al silenzio. Quella che ci prende nelle viscere, senza il conforto di una sepoltura o di un abbraccio. Noi e lei, faccia a faccia, per giorni. Fa di tutto per inflazionarsi, si traduce in dati e coefficienti, ci nega il conforto dell'estremo saluto. Infierisce, non sui cadaveri, ma su noi che restiamo vivi. E ci ostiniamo a voler capire, quando da capire non c'è nulla. Nel frattempo Mediaset, senza saperlo, ci suggerisce una lettura umanamente difficile, ma possibile: in televisione c'è Harry Potter; in Harry Potter c'è Silente; in Silente - nell'ultimo episodio della saga - c'è Epicuro. Non bisogna aver pietà per i morti, ma per i vivi, dice Albus. Che poi non è altro che il celebre monito di quel famoso greco che si aggirava per Atene duemilaetrecento anni fa: «La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi». Tutto ciò che resta di un estremo saluto e di un'onoranza funebre è la forza del ricordo nei vivi. A quella aggrappiamoci, mentre l'eterno riposo allevia il dolore di chi se ne va in silenzio.