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Intervista al sindaco Giorgio Gori: «Per uscirne dobbiamo fare a tutti il test e il tampone»

Intervista al sindaco Giorgio Gori: «Per uscirne dobbiamo fare a tutti il test e il tampone»
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di Paolo Aresi ed Ettore Ongis

Giorgio Gori è qui nel suo studio di Palazzo Frizzoni, il sole entra dalla grande finestra, il tavolo è sgombro, i quadri alle pareti suggeriscono il senso della tanta storia passata tra queste mura. Nessun sindaco ha mai dovuto affrontare un periodo così difficile, dopo la Seconda Guerra mondiale. È toccato a Gori e forse per Bergamo è stata una fortuna.

Sindaco, come sta?

«Bene, sto bene. Ho avuto mal di gola per settimane, ma adesso mi è passato. Vorrei che passasse questa catastrofe, vorrei potere riabbracciare i miei genitori che non posso incontrare da settimane. Questo virus è come la Livella di Totò, ha colpito tutti, senza stare a guardare poveri e ricchi, famosi e sconosciuti. In tutte le famiglie c’è dolore o preoccupazione».

Siamo stati travolti da questo tsunami?

«Sì, siamo stati travolti ed è stato proprio uno tsunami, un’onda incredibile che si è abbattuta su di noi. Siamo stati travolti, ma la città ha retto, non ha perso la testa, ha resistito con forza e con dignità. Anche se gli ospedali non hanno potuto sostenere la sfida e hanno fatto quello che potevano, curando a più non posso. Ma il bisogno era molto, molto più grande di quello che potevano fronteggiare. Tanti medici e infermieri si sono ammalati».

Perché andata così?

«Non è facile dirlo. Abbiamo ottimi ospedali, ma è anche vero che l’assistenza sul territorio è stata indebolita molto in questi anni. Così quando gli ospedali si sono riempiti all’inverosimile, i malati sono rimasti a casa e curarli è stato molto difficile. Avessimo avuto un’organizzazione di medici di base e di assistenza domiciliare forte, magari avremmo potuto fare di meglio, avremmo potuto anche arginare la valanga a monte. Ma adesso non dobbiamo fare polemiche, la situazione è questa e dobbiamo operare per il meglio, in questa realtà. Abbiamo bisogno, per esempio, di completare quelle unità di pronto intervento sul territorio, le Usca: dovrebbero essere ventidue, siamo fermi a sei».

È vero che ha telefonato a tutti i cittadini di Bergamo?

«Sì, ho scoperto che esiste un servizio che consente di registrare un messaggio e inviarlo a tutti i numeri fissi della città e così ho fatto. Per farmi sentire vicino alle persone e per spiegare alcune precauzioni».

La gente è sembrata soddisfatta di questa sua idea.

«Sì, qualcuno ha anche cercato di rispondermi, senza accorgersi che era una registrazione... L’ho fatto perché ho pensato che ci sono ancora cittadini, soprattutto anziani, che non dispongono di Internet».

In questo marasma, voi sindaci siete stati un punto di riferimento per la cittadinanza.

«Sì, credo di sì, anche se abbiamo commesso errori. All’inizio abbiamo sottovalutato la situazione, qualche altra volta abbiamo fatto tantissimo, andando anche oltre la nostra competenza. Io mi sono dispiaciuto molto di non avere compreso subito il vero peso della situazione, del pericolo. Ma in quei giorni, a fine febbraio, non eravamo in pochi a sottovalutare la portata della malattia. Ricordo che il 27 febbraio il virologo famoso, Burioni, raccomandava di non andare nel panico, spiegava che bisognava prestare attenzione, come nel caso di una normale influenza. Abbiamo sbagliato. Comunque, noi sindaci siamo diventati punti di riferimento. È successo un fenomeno particolare, ci siamo tutti raccolti in un rapporto molto diverso dal solito, amici, parenti, fratelli, concittadini. La nostra città è diventata come un paese, tutti collegati insieme».

Lei, sindaco, si è sentito lasciato solo da Regione e Stato?

«No, onestamente no. Solo in un caso c’è stata una situazione di confusione e di incomprensione: quando si doveva decidere della zona rossa per i comuni della media Valle Seriana. Lì c’è stato un rimpallo di responsabilità fra Regione e Stato, un’attesa che non abbiamo capito, un senso di incertezza».

C’è stata anche la vicenda dell’ospedale da campo, prima annunciato e poi smentito in una giornata. E poi realizzato.

«L’idea era stata del presidente di Promoberg che aveva offerto gli spazi, io ho fatto mia la proposta, la Regione ha accettato perché era convinta sarebbero arrivati medici dalla Cina. Soltanto che poi la cosa in poche ore è cambiata e non si era più sicuri di avere i medici per la struttura. A quel punto io mi sono fatto sentire: ho fatto presente che Bergamo aveva bisogno di quella struttura e le soluzioni si sono trovate. Sono arrivati i russi, i medici di Emergency che hanno fatto un lavoro meraviglioso, che hanno affrontato epidemie terribili come quelle di Ebola e hanno dato suggerimenti preziosi anche in materia di organizzazione, hanno ribaltato il progetto».

Lei è andato più volte in televisione, due volte anche da Fazio. Non ha mai gridato. Perché?

«Perché noi bergamaschi siamo fatti così, non ci va di gridare. Ma credo che la mia espressione abbia parlato più di tante parole forti. Mi ha chiamato persino mia mamma per sapere se stessi bene... La preoccupazione mi usciva dagli occhi. Bisogna essere autentici, non bisogna far finta di essere qualcosa d’altro. Io credo che l’Italia alla fine abbia capito la tragedia di Bergamo. Anche quella immagine dei camion militari che portano via le bare, è stata più forte di mille discorsi».

Lei ha avviato anche una battaglia per fare riconoscere che i morti a Bergamo, per Covid-19, sono stati molti di più di quanto affermato nei documenti ufficiali.

«Certo, lo avevate scritto voi, e poi lo ha analizzato anche L’Eco questo fenomeno. Tutta la gente che muore a casa senza avere fatto il tampone, chi la censisce? A Bergamo nel mese di marzo sono morte 553 persone. Nel marzo dello scorso anno i decessi furono 125. Come si spiega la differenza? Ovviamente la causa è il Coronavirus. I morti per Covid-19 sono quindi 428. Invece secondo i dati ufficiali sarebbero 201. Per la provincia, è vero a maggior ragione. I documenti dicono duemila morti per Covid, ma in realtà saranno circa cinquemila. In un mese».

Ma se i morti sono cinquemila e il tasso di mortalità del Coronavirus è dell’un per cento… i contagiati dovrebbero essere, nel nostro territorio, ben 500 mila!

«È proprio così. Per questo chiediamo si facciano tamponi a tutti in abbinamento all’esame sierologico eseguito sul sangue. Così sapremo chi è a posto e chi no. E se tocchiamo le seicentomila persone che già hanno superato Covid-19, si può tornare a una vita quasi normale, salvaguardando le persone fragili e quelle dai 65 anni in su. Si realizzerà l’immunità di gregge».

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