In gioco progetti per 14,4 miliardi

La base militare cinese a Gibuti Ovvero il Dragone si prende l'Africa

La base militare cinese a Gibuti Ovvero il Dragone si prende l'Africa
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Poche migliaia di uomini. Così la Cina ha ufficializzato la costruzione della sua prima base militare all’estero, sull’isola di Gibuti, nel Corno d’Africa di fronte allo Yemen. Un accordo di cui già si era parlato lo scorso anno in occasione della firma dell’accordo per l’istituzione della base, ma che è stato ufficializzato solo nei giorni scorsi. Dieci anni di contratto di concessione con l’opzione di proroga per altri dieci, proprio all’imbocco dello Stretto di Bab el Mandeb, tra l’Oceano Indiano e il Mar Rosso. Nell’accordo di fine 2015 non si parlava espressamente di coinvolgimento militare, ma solo di base navale con funzioni di “supporto logistico” per il rifornimento delle navi da guerra cinesi impegnate nelle missioni antipirateria delle Nazioni Unite. Ma l’annuncio di Pechino dei giorni scorsi relativo all’invio delle truppe pone l’accento su una nuova percezione che la Cina vuol dare di sé al mondo, di fatto entrando nell’empasse mediorientale candidandosi a nuovo interlocutore per il futuro. Inoltre, la scelta di Pechino di impiantare la sua prima base militare all’estero desta scalpore perché era dai tempi di Mao che la Cina rifiutava di creare basi fuori Paese, criticando la strategia a stelle e strisce giudicata «imperialista». Finora gruppi navali cinesi erano presenti in molti mari, ma mai fino a oggi era stato dato l’avvio ai lavori di costruzione di un vero e proprio centro militare stabile.

 

 

Chi c’è a Gibuti. La base cinese di Gibuti sorgerà accanto a quella americana dove sono di stanza 4.500 soldati impegnati in operazioni antiterrorismo. Nel Paese sorge anche una base francese. Ufficialmente i militari cinesi, 5mila affiancati da altrettanti civili, saranno impegnati in operazioni antipirateria. La base, secondo quanto finora è trapelato, sarà in grado di accogliere grandi navi da combattimento, avrà una base aerea e alloggiamenti sia per le forze di marina che dell’esercito. I cinesi, dunque, sbarcano su Gibuti dopo che i Paesi occidentali, tra i quali anche l’Italia, in tutto hanno stanziato circa 25mila uomini, rendendo il piccolo guardiano del Corno d’Africa la prima caserma del continente (ci sono anche militari giapponesi e pakistani). Di fatto Gibuti è diventata il punto di partenza per la lotta al terrorismo nella regione, e da lì partono i droni americani diretti in Somalia e nello Yemen per dare la caccia alle cellule di al-Qaeda o agli Shabaab. Ma l’importanza di Gibuti non è solo militare, è anche di tipo economico.

 

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Preoccupazione americana. Dal minuscolo staterello del Corno d’Africa, strategico per via della sua posizione all’imbocco del mar Rosso, zona da cui transita il 40 percento del traffico merci del mondo, l’ambasciatore americano Tom Kelly, interpellato dal Financial Times, fa sapere che la coesistenza delle due basi, quella cinese e quella statunitense, «rappresenterà una sfida per tutti». Leggendo tra le righe, si percepisce un certo disagio da parte americana in merito alla decisione di Pechino. L’America paga a Gibuti 63 milioni di dollari l’anno per la concessione del terreno su cui sorge la sua base, mentre la Cina ne pagherà soltanto 20. Ma quello che più preoccupa gli Usa è il massiccio allargamento dell’influenza delle imprese cinesi nel continente africano, che di fatto sta togliendo spazio agli interessi americani. Ad oggi, nel solo stato di Gibuti, le esportazioni cinesi sono nove volte quelle di Washington, mentre il volume complessivo degli scambi commerciali tra Cina e Africa supera i 200 miliardi di dollari, tre volte di più di quello degli Usa.

 

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Interessi cinesi in Africa. Da tempo, infatti, la Cina ha messo gli occhi sull’Africa per via delle risorse del sottosuolo e il contratto di concessione per la base militare è solo l’ultimo passo. La Cina è il principale Paese con cui il continente africano ha avviato progetti in materia di cooperazione, commercio e infrastrutture. E per quanto riguarda Gibuti, il sogno del suo presidente Ismail Omar Guelleh è quello di trasformare il Paese in una sorta di Singapore, rendendolo l’hub commerciale dell’Africa Orientale. In cantiere ci sono progetti per 14,4 miliardi di dollari, in gran parte finanziati da banche cinesi. Perché fare affari in Africa, per la Cina, è comodo. Prima di tutto per via degli approvvigionamenti di materie prime, di cui Pechino è sempre alla ricerca. E poi perché il mercato africano è tollerante sul piano normativo. Ponendosi in una posizione neutrale nei confronti degli Stati africani, soprattutto in materia di diritti umani ed ecologia, la Cina negli anni è diventata un partner benvisto dai grandi potenti del Continente Nero, che le hanno permesso, in cambio di denaro, di testare i prodotti delle proprie multinazionali e passare dall’Africa per la conquista dei mercati più importanti. Oltre a controllare le principali infrastrutture strategiche dei vari Stati.

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