La crisi umanitaria del Bangladesh dove arrivano 10 profughi al minuto

Secondo le stime dell’UNHCR nel periodo di massimo picco dell’esodo erano dieci al minuto i profughi Rohingya che raggiungevano il Bangladesh. Tra il 25 agosto 2017 (data dell’attacco Rohingya alla polizia birmana che ha dato il via all’escalation di violenza) e il 7 gennaio 2018, nel paese sono arrivati più di 647mila profughi Rohingya. Arrivano dopo giorni di cammino, malnutriti e in pessime condizioni fisiche, portandosi dietro, se ci riescono, i propri cari e qualche oggetto in un sacchetto. Il Bangladesh sta facendo del proprio meglio per accoglierli, ma la sua struttura economica e sociale, con innegabili problemi strutturali, non è in grado di far fronte a una delle più grandi crisi umanitarie degli ultimi anni.
Fonte: Humanitarian response plan (settembre 2017-febbraio 2018) dell’OCHA.
Condizioni igieniche disastrose. Le condizioni di vita nei campi profughi bengalesi sono ormai disastrose, soprattutto per quanto riguarda l’uso dei servizi igienici, l’acqua potabile e la diffusione di malattie. Secondo i dati diffusi da molte organizzazioni umanitarie tra cui Medici senza Frontiere, quasi ovunque sono tra le 40 e le 50 le persone che condividono una singola latrina, numeri molto oltre la soglia di emergenza stabilita dall’UNHCR in venti persone per singolo bagno. Altro enorme problema è quello dell’eccessiva distanza delle latrine rispetto alle abitazioni. Ci sono zone dei campi profughi dove i servizi igienici sono ben più distanti dei 50 metri previsti, col risultato che moltissime persone ne creano di artigianali, a cielo aperto. Problema opposto riguarda la vicinanza delle latrine ai pozzi di acqua potabile e alle zone di gioco per i bambini, tanto che circa il 60 per cento dei pozzi dei campi è contaminato con batteri presenti nelle feci, il che rende altissimo il rischio di diffusione di infezioni intestinali. Altrettanto comuni sono le epidemie di morbillo e difterite, che in condizioni igieniche migliori sarebbero facilmente gestibili. L’emergenza è aggravata dal fatto che ad essere colpiti sono principalmente donne e bambini, che costituiscono la maggioranza della popolazione dei campi Rohingya.
Metropoli di baracche. Una delle zone più interessate dalla crisi è la regione di Cox’s Bazar, quattrocento chilometri a sud della capitale Dacca, al confine con il Myanmar. I campi profughi gestiti in questa regione dal governo bengalese sono due: Nayapara e Kutupalong. Prima dell’esodo iniziato alla fine di agosto, erano circa 112mila, secondo dati Reuters, i profughi che vivevano nel solo campo di Kutupalong. Oggi il loro numero è più che quadruplicato, rendendo il campo una distesa infinita di capanne, costruiti negli ultimi mesi, in condizioni igieniche emergenziali, nelle aree attorno al campo ufficiale. Il risultato è una “metropoli” nata dal proliferare di migliaia e migliaia di alloggi di fortuna dove vivono principalmente donne e bambini. Le strade il più delle volte non esistono o non sono percorribili. Spesso gli aiuti vengono quindi portati a piedi da referenti di organizzazioni umanitarie che camminano, armati di zainetti, per campi sconfinati.
Tante sono le Ong operanti sul territorio, tra le quali Medici senza Frontiere, Croce Rosse e Action Aid: operano nei campi profughi o con presidi sanitari e cliniche mobili che si muovono tra Kutupalong, Balukhali, Mainnerghona, Jamtoli, Unchiparang e nelle zone di confine. I loro interventi, però, spesso non sono coordinati e perdono quindi di efficacia. Resta da chiedersi, allora, considerando che l’Italia è andata in crisi per 250mila migranti arrivati nel giro di un anno, come potrà un Paese come il Bangladesh gestire i quasi 650mila profughi arrivati dal 25 agosto. In che modo riuscirà questo paese a far fronte alla crisi senza una risposta forte della comunità internazionale?