I vantaggi e i rischi

La democrazia delle lobby (contro cui servirebbe la politica)

La democrazia delle lobby (contro cui servirebbe la politica)
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“Lobby” è un termine particolarmente controverso: il più delle volte, viene utilizzato con un’accezione negativa, ad indicare un gruppo di persone che per interessi personali compie sotterfugi e affari loschi di vario tipo. Ma è, sulla carta, un errore: in sé, fare attività di lobbying non è per nulla illegale né immorale, tanto che è codificata in diversi Paesi del mondo, specie nei più avanzati. Con lobby, infatti, si intende un’organizzazione che opera pressioni nei confronti delle istituzioni affinché leggi e provvedimenti che tocchino la sua sfera di azione siano il più favorevoli possibile. Solitamente, le grandi aziende fanno lobby, ma anche i gruppi religiosi, le associazioni per i diritti civili o le Ong. Naturalmente, fare lobby comporta un necessario intreccio con i luoghi di potere, ed è proprio da questa connessione che talvolta scattano meccanismi illeciti (il più delle volte riconducibili alla corruzione). Fatta questa doverosa premessa, un dato è insindacabile: le lobby, nel mondo occidentale, sono molto potenti, e spesso decidono (o provano a farlo) di risultati elettorali e leggi da approvare o, viceversa, da abolire.

Il cuore del lobbying: gli Stati Uniti. Gli Usa, per storia e rilevanza mondiale, sono senz’altro il Paese in cui le attività di lobby sono più numerose e intense. Tanto che, ormai da diversi decenni, esistono vere e proprie norme che regolano i lobbying. Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino “il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo”) ed è un lavoro (ben remunerato), a tempo pieno, grazie al quale le cosiddette lobby (politiche, religiose, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un’altra. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari.

Si intuisce, come si accennava, che da un’attività concessa e regolata si possa facilmente passare ad un qualcosa di illecito: booze, broads, bribes, le “3B” del lobbismo americano, alcol, donne, e bustarelle. Da corollario della libertà d’espressione a sistema corruttivo e di potere, insomma: il passo è breve, e ormai frequente. Tanto che le lobby scendono in campo, in particolare, quando è il momento delle elezioni presidenziali: quale candidato può tutelare maggiormente, con le leggi che farà una volta alla Casa Bianca, i miei interessi e quelli della mia attività? Un esempio su tutti, quello di Mitt Romney, il volto repubblicano che nel 2012 lanciò la sfida a Barack Obama. Il mondo della finanza era particolarmente interessato al candidato del Gop, in quanto politico dal programma elettorale teso ad agevolazioni fiscali e regole meno severe sugli investimenti. Certo, la domanda sorge spontanea: era il programma di Romney che piaceva alla finanza, o era la finanza ad aver portato Romney alla candidatura in qualità di suo uomo? Probabilmente, non lo sapremo mai. Quel che è certo è che vennero investiti, dietro le quinte, centinaia di milioni di dollari per favorire l’ascesa di Mitt. Ma tutto si rivelò inutile, poiché le elezioni le vinse Obama, e quello repubblicano venne definito come uno dei più colossali fallimenti lobbistici di tutti i tempi. Grande domanda finale: a vincere fu il voto popolare o interessi ancor più forti di quelli repubblicani che gravitavano intorno a Barack?

 

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Le lobby in Europa. Anche in Europa, naturalmente, il mondo delle lobby esiste, ma opera in maniera differente che negli Usa, essendo meno aggressivo e più votato al compromesso. Particolarmente intensa è l’attività lobbistica che agisce nei corridoi del Parlamento e della Commissione europea, che possiede un apposito registro in cui figurano i nomi di 5 mila fra lobbisti e gruppi di interesse (oltre a 10 mila non regolarizzati). Lo stile di approccio è completamente diverso dai colleghi americani. È più difficile il contatto diretto con i funzionari della Commissione e del Parlamento, piuttosto si lavora attraverso più canali di comunicazione e di influenza, anche utilizzando think thank che elaborano soluzioni tecniche o associazioni di categoria che rappresentano un intero settore. Un’altra differenza riguarda il livello di relazione reciproca tra influenzatore e influenzato nei due universi. A Washington guardano al breve termine, nella speranza di raggiungere il proprio obiettivo a discapito della concorrenza, in un’ottica all-or-nothing. A Bruxelles, i lobbisti sono votati a mantenere le relazioni di lungo periodo, fondate sulla fiducia e lo scambio di informazioni in un approccio costruttivo.

Il caso inglese. Per chiarire come il tutto avvenga nel nostro Continente, stavolta nei singoli Paesi, si prenda un caso di un paio di anni fa, che creò un vero e proprio scandalo, in Gran Bretagna, altro Paese dove le attività di lobby sono regolamentate. L’argomento fu la questione delle isole Fiji. Nel 2009 lo Stato del Pacifico venne espulso dal Commonwealth in seguito a una serie di colpi di Stato militari, che violarono i più elementari diritti umani. Due giornalisti si finsero lobbisti, ed esercitarono pressione sul Governo per far tornare le Fiji dentro il Commonwealth. E più di un parlamentare cadde nel tranello. Il primo fu il conservatore Patrick Mercer, che si intascò un assegno da 4 mila sterline, un anticipo per il patto che gli avrebbe garantito complessivamente 24 mila sterline. E prese la cosa davvero sul serio, poiché preparò una mozione parlamentare sulle Fiji, formulò ben cinque interrogazioni parlamentari a cinque diversi Ministri, e addirittura creò un intergruppo parlamentare sulla vicenda delle isolette. Insomma, il conservatore Mercer era riuscito a coinvolgere fino a 19 colleghi deputati: la finta pressione dei giornalisti-lobbisti si tramutò in un’azione concreta di pressione sul governo. E Mercer non fu il solo. Questo esempio chiarisce ancor di più quanto le lobby possano influenzare le decisioni di un Paese, e quanto la corruzione possa essere lo strumento più efficace.

 

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Il vuoto normativo italiano. E in Italia? Da noi norme sul lobbying non ce ne sono, per quanto dall’inizio della storia repubblicana siano stati avanzati 58 differenti disegni di legge, l’ultimo meno di un anno fa. Il fatto che mai, nemmeno uno, sia riuscito a divenir legge è un elemento che fa pensare. La conseguenza, dunque, è che l’Italia è una zona franca per le lobby, dove può accadere di tutto e di più: solo il 20 percento delle attività lobbistiche sono in chiaro, il restante 80 agisce nell’ombra, rappresentando i grandi gruppi economici. Non  a caso, l’Unione europea ci ha collocati al 19esimo posto su 22 per trasparenza di attività lobbistiche, davanti solo a Cipro, Spagna e Portogallo. Insomma, le connessioni fra politica e gruppi di interesse, in Italia, sono un enorme mistero. E le nuove norme circa l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, in termini di indipendenza della politica: un partito ha bisogno di soldi per vivere, e oggi quel denaro glielo può garantire solo un privato. Cosa che innesca una chiara dinamica viziosa, tale per cui un politico del tal partito dovrà per forza agire in ossequio agli interessi del tal finanziatore. Che spesso non decide di finanziare un partito per puro spirito di liberalità. Negli ultimi anni, peraltro, la vita governativa italiana ha vissuto momenti che lasciano ampio spazio a dubbi e perplessità: dal 2013 a questa parte, infatti, ben due Governi (Letta e Renzi) non sono stati legittimati da un voto popolare, cosa che avvenne già nel 2011 con Mario Monti. Una situazione che cela, o più prudentemente potrebbe celare, la spinta decisiva di gruppi interesse circa nomi e modalità.

E la democrazia? È evidente come tutto quanto detto finora, in termini diversi in base al Paese, ma comunque analogo nella sostanza, porti ad alcune, cruciali domande: ma il cittadino? E il suo voto? Cosa c’entra oggi un individuo con la politica? È facile abbandonarsi a complottismi e disillusioni, che pure forse un pizzico di fondatezza ce l’hanno. Un passo avanti arriverebbe senz’altro dalla agognata redazione (anzi, approvazione) anche in Italia di leggi che regolino le attività di lobbying, che, vale la pena ricordarlo un’altra volta, spesso sono importantissime per dar voce e tutelare interessi sociali o economici che altrimenti verrebbero ignorati. Le lobby, questa volta sì in termini negativi, sono una realtà evidente e decisiva per la vita legislativa e governativa di un Paese, e arginarne l’influsso, in fin dei conti, sta pressoché interamente alla responsabilità del singolo politico. Ben vengano allora le percentuali di preferenze che la nuova legge elettorale, l’Italicum, garantisce, cosicché un primo spazio di movimento al cittadino sia assicurato dalla scelta di chi mandare in Parlamento. Per il resto, si vedrà.

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