Volevano restare nella Chiesa, ma...

La dolorosa storia dei Valdesi ai quali il Papa ha chiesto perdono

La dolorosa storia dei Valdesi ai quali il Papa ha chiesto perdono
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Lunedì mattina. Zitto zitto - per modo di dire - il papa entra nel tempio valdese di Torino - il primo che i Valdesi poterono costruire al di fuori delle valli in cui erano stati confinati - e, per dirla con Repubblica.it, fa la storia. Fra l’altro dice: «Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!». Fra tutte - comprese quelle di san Giovanni Paolo II - questa suona forse come la richiesta di perdono più dolorante e più forte mai pronunciata da un pontefice. Che immediatamente prima aveva detto: «Purtroppo, è successo e continua ad accadere che i fratelli non accettino la loro diversità e finiscano per farsi la guerra l’uno contro l’altro. Riflettendo sulla storia delle nostre relazioni, non possiamo che rattristarci di fronte alle contese e alle violenze commesse in nome della propria fede, e chiedo al Signore che ci dia la grazia di riconoscerci tutti peccatori e di saperci perdonare gli uni gli altri. È per iniziativa di Dio, il quale non si rassegna mai di fronte al peccato dell’uomo, che si aprono nuove strade per vivere la nostra fraternità, e a questo non possiamo sottrarci».

 

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Per chi sia andato in vacanza nelle valli attorno a Torre Pellice o per chi, cattolico, abbia sfiorato una storia d’amore con una valdesotta dura e pura (e anche molto carina) di quelle parti, la parte più sanguinante del passo compiuto dal Papa risulta quella contenuta nell’esordio della formula: «Da parte della Chiesa Cattolica». Perché davvero, ma davvero proprio, quando si affronta la storia dei Valdesi appare evidente che tutto il guaio è stato prodotto dalla gerarchia di Roma. E il Papa, che li ha conosciuti già in Argentina, dove hanno una fiorente comunità, e che dunque deve averne studiato bene la vicenda, si è assunto tutta la responsabilità di quel danno, come fosse accaduto ieri e fosse stato lui a farlo. D’altro canto i valdesi sono piemontesi come i nonni del papa, quindi argentini per le stesse ragioni.

Ma torniamo alle origini della questione. Perché poi è successo di tutto (e adesso ricucire diventa molto complicato), ma se volessimo riandare ai primi tempi potremmo quasi ascoltare i cardinali in San Pietro impegnati a cantare - in anticipo di molti secoli e diretti a Valdo, il fondatore - quella canzone di Jannacci e altri che fa: «Vengo anch’io /No. Tu no». I primi valdesi - la storia è lì a confermarlo  - ce l’hanno messa tutta per cercare di restare con la chiesa di Pietro. E si sono sentiti rispondere come quello che voleva andare allo zoo comunale: No, voi no.

 

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In breve andò così. C’era una volta un signore ricchissimo il cui nome - o forse il soprannome - era (sinteticamente) Valdo. In genere lo si dice Valdo di Lione perché visse in quella città, ma probabilmente proveniva da una zona al confine con il cantone svizzero di Vaud. Anche di sant’Antonio si dice “da Padova”, ma in realtà era portoghese. Siamo negli anni a cavallo fra il XII e XIII secolo. Fosse nato oggi, Valdo sarebbe un baby boomer. Un ragazzo degli anni 40 (o poco prima, secondo altri).

Ricco, famoso e personaggio di rilievo nella città in cui viveva, Valdo fu colpito un giorno - si dice - dalla canzone di un menestrello che raccontava la vita di sant’Alessio. Commosso dalla biografia fiorita del santo decise di conoscere meglio il vangelo e, non sapendo di latino, se li fece tradurre tutti e quattro in francese. A forza di leggerli ne imparò a memoria interi capitoli. Il colpo di fulmine avvenne sulle parole di Gesù al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Matteo XIX, 21). Valdo era in quel momento un uomo sposato e con due figlie adolescenti. Sistemò la moglie, fece accogliere le ragazze nel monastero di Fontevrault, il resto dei beni lo dette ai poveri. Non sapeva dunque il latino, ma il vangelo lo capiva benissimo.

Con alcuni amici coi quali aveva fatto voto di castità e di povertà, vestito di stracci e mendicando prese ad annunciare la parola di Dio nei dintorni. Per tutti erano “I Poveri di Lione”, obbedienti al Papa e contrari allo spiritualismo spinto oltre ogni misura dei Catari o Albigesi. Così li descrive una cronaca dell’epoca: «Costoro mai hanno dimore stabili, se ne vanno due a due a piedi nudi, vestiti di lana, nulla possedendo, ma mettendo tutto in comune come gli apostoli, seguendo nudi il Cristo nudo. Iniziano ora in modo umilissimo, perché stentano a muovere il piede; ma qualora li ammettessimo, ne saremmo cacciati» (Walter Map, De Nugis Curialium, via wikipedia.it)

In parole, appunto, povere: il loro semplice comportamento costituiva in sé un rimprovero ai modi di vita romani. Per questo, anche se i Papi in un primo tempo non ebbero niente in contrario a che quei poveri continuassero nella loro missione, la curia li considerò da subito una minaccia. Al pari dell’abitudine introdotta dai seguaci di Valdo di andar nelle piazze confessando i propri peccati e chiedendo perdono. Desiderare di vivere il vangelo in maniera radicale va bene, viverlo diventa pericoloso. Stefano di Borbone, l’inquisitore che scrisse contro di loro dopo che il conflitto con la Chiesa di Roma divenne aperto, sostenne che così vivendo e agendo Valdo aveva usurpato «l'ufficio degli apostoli, predicando i Vangeli e quel che aveva imparato per le vie e per le piazze; riunì intorno a sé molti uomini e donne perché facessero lo stesso, istruendoli sui Vangeli. E li mandava a predicare nelle città vicine, pur essendo quelli di condizione sociale modestissima». Osservazione - quest’ultima - che richiama quella rivolta dai Farisei al cieco nato: non hai fatto nemmeno la terza media e pretendi di dirci che hai riacquistato la vista.

In ogni caso, nei primi anni, i predicatori non crearono problemi alle istituzioni ecclesiastiche. L’arcivescovo di Lione, Guichard de Pontigny, li difese come fossero - per dirla coi nostri tempi - di CL o dei Focolarini. I guai iniziarono dopo, con la politica. E con la morte di papa Alessandro III - che li aveva accolti - e del vescovo Guichard. Molte città di credo imperiale (ghibelline), infatti, usavano della presenza dei Poveri di Lione in funzione antipapale. Così, durante il convegno (oggi si direbbe Convention) di Verona del 1184, alla presenza dell’imperatore Federico Barbarossa, papa Lucio III promulgò una costituzione detta Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem (per la lotta alle diverse mafie eretiche) nella quale veniva decretato l’anatema perpetuo contro i Catari e i Patarini (e fin qui, niente di nuovo) ma anche contro «coloro che, con falso nome, affermano mentendo di essere Umiliati o Poveri di Lione, ...» o altro. Il fatto grave è che l'anatema comporta non solo l'esclusione dalla chiesa (come la scomunica, che però è reversibile) ma anche l’accusa - rivolta ai colpiti - di essere scismatici e come tali destinati alla dannazione eterna. E l’accusa fu devastante anche perché segnò l’inizio di contrasti all’interno stesso del movimento, tra chi - come il fondatore - desiderava comunque mantenere la propria fedeltà alla Chiesa e chi - disperando di potersi mai vedere riconosciuti - assunse un atteggiamento di forte opposizione.

 

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Quando oggi i valdesi hanno ricordato il dolore per essere stati considerati eretici e scismatici pareva di avvertire ancora tutto il bruciore di quella ferita. Tanto più che la costituzione veronese non sembrava (e non sembra ancora) diretta contro i Poveri di Lione, ma contro coloro che usurpandone il nome, volevano accreditarsi come tali. A rigor di logica, dunque, la posizione dei valdesi come tali non era in alcun modo messa in questione. Ma tant’è: sia pure in assenza di talk show e delle colpevoli semplificazioni della stampa, anche i valdesi veri furono messi nel mazzo e colpiti, come spesso avviene, a caso. Colpiti gravemente, tanto che ancor oggi, quando il Papa ha ricordato la «storia delle nostre relazioni» è parso di sentire - a voce - un «sanguinose» che nel testo scritto non c’è. Sarà stato un prestito della nostra memoria. Che molti altri ne avrebbe, anche perché il movimento valdese subì, nel tempo, traversie interne di non poco conto, che sarebbe però troppo lungo richiamare qui. Per i cultori di storia locale ricordiamo però che c’entra anche Bergamo in questa vicenda.

Per tutti gli altri ci preme invece notare come sia davvero immenso il disegno di Francesco consistente non nel perdonare, ma nel chiedere perdono, a nome della Chiesa, soprattutto a coloro che si son visti rifiutati nel loro desiderio di essere accolti come figli. Se qualcuno volesse leggere la storia europea che va da san Francesco alla fine dell’Ottocento come la storia di una una paternità e maternità rifiutata, e la storia della letteratura atlantica (europea e americana) contemporanea come la vicenda di una sindrome abbandonica diffusa (con Kerouac e i suoi in prima linea) non solo avrebbe un campo di lavoro magnifico, ma potrebbe forse riconoscere nel discorso di oggi del Papa un evento smisurato, a fronte del quale, davvero, tanti altri - sia pure importantissimi - sembrano impallidire.

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