La sentenza del suicidio assistito in cinque punti ragionati
E da domani cosa cambia? La sentenza della Corte Costituzionale che a determinate condizioni depenalizza il suicidio assistito, è stata salutata con un tifo quasi da stadio da gran parte dei mezzi d’informazione. Così si sono smarriti i contorni (e le ragioni vere) di questa decisione. Una decisione che ha una direzione chiara, ma che lascia aperte tante questioni, destinate a infiammare il dibattito e a sollevare polemiche nei prossimi mesi. Proviamo a dare uno sguardo ravvicinato a questa svolta.
1. Come si è arrivati a questa decisione? Il caso è stato provocato ad arte da Marco Cappato, il leader radicale che ha accompagnato il dj Fabo a morire in Svizzera. Cappato si era autodenunciato sulla base dell’articolo 580 dell’articolo penale (che prevedeva pene fino a 12 anni per casi come il suo). I giudici del tribunale di Milano, dopo averlo assolto dall'imputazione di istigazione al suicidio hanno chiesto l'opinione della Consulta sull'articolo 580, approvato durante il regime fascista, che parla proprio di istigazione e aiuto al suicidio.
2. Perché una sentenza della Consulta e non una legge del Parlamento? La Consulta un anno fa aveva in realtà sospeso il giudizio delegando il legislatore a risolvere la questione e dandogli un anno di tempo. Il 24 settembre la scadenza è arrivata a termine con un nulla di fatto, così i giudici si sono ritrovati e hanno deciso per la distinzione tra aiuto e istigazione al suicidio, depenalizzando il primo, a particolari condizioni.
3. Quali sono le condizioni poste dai giudici? Nella sentenza si chiarisce che la depenalizzazione riguarda «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». In realtà poi in serata la Corte ha corretto queste righe, allargando la possibile casistica: invece di «sofferenze fisiche e psicologiche» ha cambiato in «sofferenze fisiche o psicologiche»: quindi per accedere alla morte programmata non serve la presenza di entrambe, ma solo di una, ovviamente unita agli altri criteri.
4. Suicidio assistito è eutanasia? Il Comitato nazionale di bioetica a luglio con un pronunciamento ha distinto le due cose e aveva invitato il Parlamento a stabilire la differenza tra assistenza medica al suicidio ed eutanasia. Il documento del Comitato si soffermava in particolare sul significato dell’aiuto al suicidio assistito, sulle sue modalità di attuazione, su analogie e differenze con l’eutanasia e sui temi etici più rilevanti e delicati attinenti alla richiesta di suicidio assistito: l’espressione di volontà della persona; i valori professionali del medico e degli operatori sanitari.
5. E ora a chi la responsabilità di procedere alla richiesta di suicidio assistito? È la grande questione rimasta aperta e sulla quale è difficile far convergere i consensi di tutti. Ieri la Federazione degli Ordini dei Medici ha subito avvertito che questa responsabilità non può ricadere sui camici bianchi. «Ad avviare formalmente la procedura del suicidio assistito, essendone un responsabile, sia un pubblico ufficiale rappresentante dello Stato e non un medico», ha voluto chiarire subito il presidente della Federazione Filippo Anelli. Gli ha fatto eco il rappresentante dei medici della Capitale, Antonio Magi: «Il Codice parla chiaro e all’articolo 17 stabilisce che anche su richiesta del paziente non dobbiamo effettuare né favorire atti finalizzati a procurare la morte». Insomma cambia tutto, ma potrebbe non cambiare nulla...