La religione rende meno altruisti? Sì, ma non è detto che sia un male

Col titolo La religione rende più altruisti?, IlPost.it dà rilievo ad un recente studio pubblicato su Current Biology, dal quale risulta che i figli di genitori che si definiscono religiosi tendono ad essere meno generosi dei loro coetanei cresciuti in famiglie atee o comunque “laiche” e sono più attenti alla necessità di punire chi si comporta male. Lo studio ci è parso molto serio e IlPost ne dà una illustrazione limpida, esatta e dettagliata. Si aggiunga che concordiamo in tutto e per tutto con le conclusioni della ricerca e potremmo chiuderla qui.
Se continuiamo è solo per dire che una volta accettati (lo ribadiamo) i risultati dello studio, qualche osservazione ci pare doverosa in rapporto al suo significato e a una sua possibile lettura. Qualcuno potrebbe infatti ritenere che, producendo bambini meno generosi e più punitivi, l’educazione “religiosa” sia peggiore dell’altra. Invece non è così.
La generosità “stroppia”. Diciamo dunque, prima di tutto, che siamo felici che esistano ancora nuclei educativi (in questo caso, le famiglie “religiose”) che non considerano la generosità una virtù. La generosità è un atteggiamento certamente gradevole per chi ne beneficia, e spesso anche per chi la pratica, ma da non coltivare troppo, perché - alla lunga, ma inesorabilmente - presenta il conto. Un conto per lo più salatissimo. Essendo un aspetto dell’istintività - per quanto educata, indirizzata al bene - quando, nel corso del suo esercitarsi nel tempo, va a sbattere contro la perdurante mancanza di un corrispettivo, la generosità “stroppia”, come dice il proverbio. Cioè sbotta contro l’insensibilità altrui. Per questo le religioni, che lo sanno perché - secondo la felice formula di Paolo VI - sono esperte in umanità, non l’ammettono nei loro cataloghi, nei loro POF educativi.
Potrà dunque sembrare strano, ma un mondo di persone generose non sarebbe migliore dell’attuale, come una possibile interpretazione dello studio americano indurrebbe a ritenere. Sarebbe soltanto un mondo abitato da soggetti che si ritroverebbero - alla lunga o alla corta - ad accusare l’universo di ingratitudine. E dunque a giustificare qualsiasi iniziativa di ritorsione, magari verniciata di moralità.
Elogio della punizione (sensata). Quanto poi al fatto che la religiosità dei genitori svilupperebbe tendenze punitive nei figli, anche su questo verrebbe da dire: per fortuna che è così. A Roma c’è un termine per denominare i presuntuosi che si credono di poter fare quel che vogliono senza tener conto degli altri: impunito. «A ‘mpunito!» è il grido con cui, la prima volta si insulta e basta. La seconda je se mena, perché l’impunito bisogna che lo impari, prima o poi, come si sta al mondo. E se non ci hanno pensato i genitori a far capire certe cose, bisogna che ci pensi qualcun altro. Perché anche il mondo ha i suoi diritti, mica solo gli ‘mpuniti. D’altro canto, cosa scatena la violenza - per esempio, nelle forze di polizia o nei corpi paramilitari o nella maras sudamericane - se non la certezza dell’impunità? Un mondo di impuniti sarebbe un mondo in preda alla violenza senza rimedio. Un mondo privo di giustizia.
Certo, lo sappiamo: talvolta (anzi, troppo spesso) la punizione è sproporzionata, fisica e sanguigna; talaltra si traveste da punizione ma si tratta in realtà di vendetta; in altri casi ancora la facilità di una soluzione punitiva con successivo buttar via la chiave acceca al punto da non far intravedere altre ipotesi di correzione di una vicenda nata storta. Ma niente di questo toglie che il desiderio di una giusta, umana e commisurata punizione di un delinquente sia un desiderio giusto.
Non siamo particolarmente inclini a decidere del comportamento umano a partire da quello animale, ma tutti sanno che un gatto o un cane che da cuccioli non siano stati serenamente e dolcemente puniti si rivelano per anni e anni una sciagura per tende, tappeti, sovraccoperte di piquet e tappezzeria dell’auto. E porte, magari. E finestre artigliate per troppo di impazienza.
Punizione non significa necessariamente ricorso all’uso arcaico - e comunque inefficace, se non addirittura controproducente - della cinghia o dei ceffoni. E nemmeno comporta la sottrazione del cellulare o della Playstation. Significa solo che qualcuno deve essere messo in condizione di capire - non a parole, non a prediche chilometriche: serenamente, in forza di un provvedimento qualsiasi - che certe cose non si devono fare, punto e basta. Perché non si debbano fare - come scrive la regola di san Benedetto - se non lo capiranno sul momento lo capiranno quando sarà loro dato. Ma intanto il monaco accetti di stare bene in vista al centro del coro, così che tutti sappiano non cosa ha fatto, ma che qualcosa ha fatto che non doveva.
La carità non è mica sempre spontanea (ma è sempre una questione di giustizia). D’altra parte, che l’educazione “religiosa” porti più dell’altra a un comportamento adulto positivo e corretto lo dice l’ultima parte del servizio di IlPost, laddove riferisce che i ricercatori di Current Biology hanno spiegato la minor generosità dei bambini cresciuti in famiglie religiose «facendo appello al meccanismo di “licenza morale”: la religiosità è percepita in se stessa come segno di bontà e i praticanti potrebbero consentire a loro stessi – “inconsciamente” dice Jean Decety – di essere più egoisti nella vita quotidiana». E aggiunge: «La spiegazione è stata giudicata plausibile da altri studiosi: altre ricerche hanno infatti dimostrato che la religiosità è associata a maggiori donazioni caritatevoli, ma non a un’assistenza offerta in situazioni spontanee».
Spontanee, appunto. In altri termini, gli adulti “religiosi” sono più caritatevoli (in americano: più disposti a donazioni organizzate e certificate, che loro chiamano charity) degli altri. Non viene detto perché, ma lo diciamo noi: perché chi è “religioso” sa che la carità non può essere l’esito di un sussulto istintivo, di un’inclinazione temperamentale, di un euro da cellulare e due da fisso. La carità, per la persona ”religiosa”, è una questione di giustizia. Giustizia oggettiva. Si deve donare a chi ha meno non perché si è generosi, ma perché si riconosce razionalmente che solo un’iniziativa libera di donazione di sé - denaro, tempo, cose - può collaborare a diminuire - magari di una goccia, però sempre una goccia è - l’ingiustizia del mondo. Quella prodotta dagli ‘mpuniti di tutte le specie, tanto per capirsi.