Restano le domande di fondo

La scuola sta finendo, per fortuna (e quest'anno non è un modo dire)

La scuola sta finendo, per fortuna (e quest'anno non è un modo dire)
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Fugit irreparabile tempus. La vita fugge e non s’arresta una hora. Meglio così. Immaginiamoci se, arrestandosi per una hora, toccasse farne due o tre di greco al posto di una sola in attesa che arrivi quella di scienze. No. Fortunatamente il tempo passa e se passasse ancora più in fretta sarebbe anche meglio, così la fine della scuola arriverebbe prima. Finirebbe prima ogni giorno e finirebbe prima ogni anno.

Questo, in particolare, è stato un anno pesante, conclusosi con quelle manifestazioni antigovernative che se un risultato hanno prodotto è stato quello di far dubitare radicalmente dell’utilità degli studi. Sono gli stessi professori che hanno fatto sentire la loro voce in piazza e nei talk show quelli che dovrebbero insegnare ai nostri ragazzi a costruire un testo argomentativo? Sono gli stessi prof che si sono lasciati intervistare in diretta quelli che dovrebbero insegnare ai ragazzi ad esprimersi correttamente nella lingua nazionale? Andiamo bene!

E cosa ci sono andati a fare a scuola i loro alunni che hanno urlato contro la proposta di riforma portando le ragioni che hanno portato? Non si dice che la riforma sia perfetta, e neanche che sia buona: ma quando si dibatte bisognerebbe almeno dimostrare la capacità di stare al tema. Asserire che una torta alle fragole è cattiva perché i sigari Montecristo costano troppo non va bene, in genere. Almeno questo bisognerebbe che la scuola lo insegnasse.

Lunedì sera, in seconda serata, un responsabile di partito ha affermato che sono tre le cose che i genitori si aspettano dalla scuola: che non crollino i soffitti delle aule; che le medesime non siano affollate come carri bestiame; che i professori non continuino a cambiare nel corso dell’anno. Perfetto. Manca solo - ma si tratta di un particolare, ovviamente - che i ragazzi imparino qualcosa. E magari anche che imparino a comportarsi come persone civili. Oltre ai cortei di protesta è stata la vicenda del ragazzo di Padova precipitato da una finestra nell’albergo sulla tangenziale di Milano ad apporre il suo sigillo sulla situazione.

Sono anni che le gite scolastiche - dette anche viaggi di istruzione - costituiscono un problema. Per alcuni docenti sono addirittura degli incubi. Per le guide ingaggiate per visite a musei o siti archeologici o industriali sono il più delle volte uno stress. Per gli albergatori un costo da pagare pur di tener aperto l’esercizio. Ma da ora in poi quale professore con la testa sulle spalle se la sentirà di portare i suoi studenti in giro per il mondo, se i compagni del povero Domenico si sono dimostrati tanto collaborativi con gli inquirenti da far impallidire il silenzio di un malavitoso della piana di Gioia Tauro? Ma poi - detto fra noi - c’era proprio bisogno che fosse la scuola a portarli all’Expo?

 

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Al solito: ci sono istituti davanti ai quali bisogna fare tanto di cappello. Probabilmente alcuni di essi sono tra i migliori del mondo. Ma: per prima cosa sono troppo pochi, sparsi come sono tra Bergamo, Lucca e Pordenone. Secondo: sono anch’essi impegnati a costruire percorsi didattici nei quali alcuni alunni eccelleranno al punto da aggiudicarsi premi di tutti i tipi. Ma la domanda di fondo resta: a che cosa servono, effettivamente, quei percorsi, oltre al fatto di consentire a qualcuno di primeggiare apportando lustro alla propria scuola? Tutti gli altri, ossia i ragazzi che non parteciperanno alle gare, li vivono come situazioni nelle quali imparano per lo più a destreggiarsi - ricorrendo ai mezzi più acrobatici - con una valanga di lavoro cui non riconoscono alcun valore e che pare avere il solo scopo di impedir loro di dedicarsi alle cose che amerebbero di più. Chiaro che poi, al sabato, si sbronzino o si mettano in condizione di dover affrontare test di gravidanza.

Chi ha l’abitudine di porre domande quali: Cosa hai scoperto di interessante stamattina a scuola? difficilmente si trova davanti degli occhi che brillano. Ragazzi o ragazze bravi e bravissimi riferiscono gli argomenti che hanno affrontato. Ma la gioia, l’entusiasmo, il guizzo per una scoperta inattesa sono rarissimi. E non è ovvio che debba essere così. Perché gli stessi ragazzi che appaiono pigri e apatici fra le mura di un’aula si dimostrano poi infaticabili e arzillissimi se messi di fronte a proposte anche solo sensate di impegno culturale o sociale. Proviamo allora a fare la domanda corrispettiva ai docenti: Quale percorso di insegnamento ti ha dato maggiori soddisfazioni quest’anno? La risposta più frequente è: In che senso?

Pertanto, d’accordo: i soffitti devono star su. Pensare, coi tempi che corrono, di dover interrogare almeno due volte per settore dell’anno oltre trenta studenti (più altre verifiche di genere vario) è pura follia, perché riduce drasticamente il tempo per avanzare - e raccogliere - proposte corredate di un minimo di ragioni e di approfondimento. Dunque più di venticinque alunni per classe - nell’attuale situazione e tenendo conto della situazione media degli insegnanti - non sono compatibili con un insegnamento produttivo. Che i professori cambino nel corso degli anni è talora una sciagura e tal’altra un beneficio: il guaio è che tutto accade a caso, per ragioni contingenti che sfuggono a qualsiasi logica e rendono difficoltoso qualsiasi progetto. Possibile, ci domandiamo, che la farragine del lavoro scolastico sia tale da impedire che vengano se non altro tolte dall’imballaggio attrezzature costosissime (le LIM, tanto per citarne una) che una volta rese operative si scassano subito perché non c’è stato il tempo di addestrarne all’uso i docenti e al rispetto gli studenti?

Con tutto ciò, anche se i genitori vedessero accolte le richieste di cui parlava l’onorevole lunedì sera, è solo un bene che quest’anno finisca presto, che si chiuda questa scuola in cui non si trova più niente che valga davvero la pena di incontrare. Sperando che se non altro il desiderio di imbattersi o di perseguire qualcosa di bello e di grande sia sopravvissuto nei ragazzi esposti per troppo tempo al contagio di adulti che questa organizzazione del lavoro ha reso così disperati di sé e del mondo.

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