Si chiama sarah samir

La prima donna arbitro in Egitto e il ruolo del calcio nell'islam

La prima donna arbitro in Egitto e il ruolo del calcio nell'islam
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Si chiama Sarah Samir, e il suo nome da qualche giorno è entrato su giornali e siti d’informazione, rivoluzionando nel suo piccolo la natura dello sport in Egitto: è stata la prima donna ad arbitrare una gara ufficiale di calcio, nella terza categoria del campionato nazionale. Il match in programma era quello tra Wadi Degla FC e Talaea El Gaish SC: non ci sono video della partita, solo qualche foto che mostra Sarah autoritaria e decisa nel suo ruolo, per nulla intimorita dalla situazione. Qualche ora dopo, intervenendo telefonicamente ad una trasmissione su Cbc, la ragazza ha detto di essere rimasta particolarmente compiaciuta per le reazioni dei tifosi sugli spalti.

 

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Il senso di tale arbitraggio va ovviamente più in là del campo del Cairo dove si è disputata la gara, e sfida i tabù di una cultura che alla donna concede un ruolo marginale. Ma assieme a ciò, c’è anche una contemporaneità con alcuni fatti di sangue che offrono una lente diversa con cui guardare al mondo islamico: il calcio. Che importanza viene data allo sport dalla religione musulmana? La domanda sorge pensando anche ai 13 ragazzini che, secondo il gruppo di attivisti “Raqqa is being slaughtered silently”, sarebbero stati uccisi alcuni giorni fa a Mosul da alcuni membri dell’Isis, dopo essere stati scoperti a vedere la gara di Coppa Asia tra Iraq e Giordania. È stato un segnale lanciato dagli uomini del Califfo a chi intende violare le normative dello Stato Islamico: i corpi sarebbero rimasti esposti a lungo senza che nessun parente potesse andare a rimuoverli, per paura di possibili ripercussioni.

 

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Poco più a est, in Iran, la federazione calcistica nazionale mandava un messaggio ai suoi giocatori impegnati nella Coppa Asia di casa in Australia: niente selfie con tifose donna. Il rischio è che queste non siano vestite secondo le usanze religiose islamiche, e una foto pubblica darebbe eccessiva visibilità alla loro impudicizia. «La contrapposizione dei tre fatti evidenzia un problema di lungo tempo tra gli ulema, gli studiosi islamici e, più in generale, tra il mondo jihadista riguardo al ruolo del calcio nell’Islam», scrive James M. Dorsey sul suo blog “The turbolent World of Middle East Soccer”: senior fellow presso la Rajarantham School of International Studies a Singapore, da anni scrive sul calcio in Medio Oriente. «È un dibattito a più strati, con opinioni di scala diversa, che vanno dalla condanna dello sport come fosse un’invenzione degli infedeli che distrae i credenti dai loro doveri religiosi, ai predicatori che vedono il calcio semplicemente come uno sport per uomini, fino ai jihadisti, che stimano le utilità del calcio come strumento di legame e reclutamento, o gruppi che ancora vedono in esso una violazione della legge islamica punibile con la morte».

 

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Insomma, è difficile trovare un comune punto di vista musulmano sul calcio, che comunque nel mondo arabo rimane uno sport diffusissimo e assai amato, forte dell’estrema popolarità che i maggiori club europei hanno trovato qui in questi anni. Ma la novità dell’arbitro donna in Egitto può avere una valenza particolare, e Dorsey la spiega usando quanto scritto da Eli Berman, ex membro dell’esercito israeliano e ora economista dell’University of California. Berman nel 2011 ha scritto un libro, New Economics of Terrorism, dove si discute che «ciò che fa la differenza tra gruppi militanti funzionali e non funzionali non è il fervore religioso, ma il supporto di lavori e servizi sociali, come l’educazione, la salute, gli sport e il rafforzamento della legge». Insomma, secondo il ragionamento di Berman è molto più costoso attaccare i militanti invece che indebolirli offrendo valide alternative ai propri membri: quest’ultima sarebbe la strada più valida da battere per combattere il terrorismo. Il jihadismo cresce di fascino quando i giovani non sanno trovare qualcosa di più interessante e conveniente da seguire, anche a livello sociale: per questo tanti giovani dalle nazioni arabe sono partiti per andare a combattere in Siria e Iraq nelle file dell’Isis. E per questo, l’apertura che l’Egitto ha fatto agli arbitri donna è una piccola rivoluzione.

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