Profugo lasciato 5 giorni a - 30° Così si muore al confine finlandese

Dal Mediterraneo alla Lapponia la strada è lunga, soprattutto se la si percorre prevalentemente a piedi. Ed è difficile adeguarsi al clima; il tepore delle sponde libiche, dove anche l’inverno non è mai davvero freddo, diventa gelo insopportabile, se ci si avvicina al Circolo polare artico. Durante il 2015 i migranti che dalla Siria e dal Libano si sono diretti verso le estremità settentrionali dell’Europa sono stati 5500. L’intento era quello di scampare ai trafficanti del mare, di risparmiarsi il pericolo di una morte per annegamento, e di aggirare, al contempo, i muri che sono stati alzati nella penisola balcanica.
L’accoglienza glaciale dei Paesi artici. Il problema, ora, è che i paesi scandinavi – ma soprattutto la Norvegia – sono restii a fare entrare i profughi nel loro territorio. E così pure la Russia, che si definisce «Paese di transito», dopo avere accettato una decina di migliaia di siriani. Per rendere ben chiaro il concetto, Oslo ha ordinato la distruzione delle 3500 biciclette usate dai migranti per facilitarsi il passaggio dalla Russia alla Norvegia. A giustificazione del gesto è stato detto che i suddetti bicicli non soddisfacevano gli standard di sicurezza richiesti. Ma la vera ragione è un’altra: Mosca proibisce di attraversare il confine a piedi, Oslo toglie la licenza ai tassisti che trasportano i migranti e indaga per traffico di esseri umani chi dà un passaggio a persone senza un visto valido. La bicicletta, dunque, era l’unico mezzo “legale” con cui si poteva valicare il confine tra i due Stati. Intanto, tra bici distrutte e decreti sempre più severi contro l’immigrazione, le temperature sono scese fino a 40 gradi sotto zero e le condizioni di vita dei profughi sono diventate proibitive. L’Independent Barents Observer, ad esempio, ha dato notizia del decesso di un migrante di nazionalità indiana, trentatreenne, rimasto per cinque giorni all’aperto, a trenta gradi sotto zero, in attesa che le autorità finlandesi gli lasciassero valicare il confine.
Misure sempre più restrittive. La strada che dai paesi asiatici porta verso il nord Europa è praticata da anni, soprattutto da afghani, iracheni, iraniani, indiani e nepalesi, ma erano pochi quelli che decidevano di intraprendere il cammino artico, così impervio per le distanze da coprire e per il tempo inclemente. I Paesi destinatari di questo esiguo flusso, dunque, erano disposti a chiudere un occhio di fronte al fenomeno. Poche centinaia di ingressi, poche decine nei mesi primaverili e estivi, non erano considerati una minaccia. La situazione è cambiata radicalmente negli ultimi mesi, in coincidenza con la “crisi-migranti”. La Norvegia ha approvato una legge che obbliga gli stranieri a esibire un visto valido al momento dell’ingresso nel Paese e cerca di indirizzare i migranti verso il varco finlandese di Salla, molto più disabitato di quello russo. A Salla, finora, si sono registrati trecento arrivi, tra cui molti bambini salvati dall’assideramento. Nella lappone Kandalaksha, poi, è sorto un ostello per accogliere i profughi.
La rotta artica. La Norvegia potrebbe anche avere scaricato parte del flusso di persone sulla Finlandia, ma il braccio di ferro con la Russia non ha ancora dato un risultato soddisfacente per il paese scandinavo. La destra norvegese vuole espellere chi non ha un visto, cioè circa seicento persone, e accusa la Russia di concedere troppi visti turistici, o per studenti, a chi entra nel suo territorio. Anche se i permessi rilasciati dalle cancellerie del Cremlino non sono validi per i Paesi europei, infatti, i visti russi costituiscono comunque un motivo in più per mettersi in cammino sulla “rotta artica”, come è stata chiamata. Rispetto alla via del Mediterraneo, inoltre, è più sicura e più economica e, in ogni caso, almeno fino a Mosca ci si arriva. Il resto è affidato alla fortuna, che non è sempre benevola.
Tra rimpatri, diffidenza e resistenza (al gelo). Abdullah, ad esempio, si è consegnato spontaneamente alla polizia, dopo che il suo visto russo era scaduto e dopo avere affrontato qualche nottata a trenta gradi sotto zero. Ha dovuto pagare una multa di 5mila rubli a un tribunale moscovita ed è stato poi espulso. Le conseguenze del forzato ritorno in patria, tuttavia, possono essere anche fatali per chi ritorna. Secondo l’avvocato di Abdulah, infatti, il rientro in Yemen del ventinovenne equivale a una condanna a morte. Chi proviene dalla Turchia, tra l’altro, non può nemmeno fare ritorno nel Paese natale, perché Ankara, complice la crisi tra Putin e Erdogan, ha chiuso definitivamente le porte per chi decide di lasciare il suolo nazionale. I migranti, nel frattempo, fanno quello che possono per resistere al rigore dell’inverno e cercano di convincere le autorità che la loro presenza non costituirebbe un pericolo: «Siamo profughi, non terroristi», ripetono. I più fortunati di loro sono stati accolti in rifugi improvvisati sul confine russo, come quello del villaggio di Nikel, abitato prevalentemente da minatori. Gli altri possono solo sperare in un miglioramento del clima.