Prospettive diverse

E se il lavoro fosse il problema?

E se il lavoro fosse il problema?
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Per secoli ci siamo definiti attraverso quello che facciamo, scrive l’economista americano James Livingston nel suo libro No More Work, credendo che il lavoro fosse il modo in cui imparare la disciplina, l’onestà, l’autosufficienza, lo strumento attraverso il quale forgiare se stessi. Un valore, quello del lavoro, sul quale la repubblica italiana è costituzionalmente fondata, pur restando un Paese in cui la disoccupazione è, secondo dati Istat del terzo trimestre del 2017, all’11,2 per cento. Ma è la “piena occupazione” la vera panacea? Cosa succederebbe se il lavoro non fosse la soluzione ma il problema? È davvero nel lavoro la chiave per diminuire la povertà tra le famiglie e le disuguaglianze sociali?

 

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In un mercato del lavoro come quello italiano, squilibrato sia in termini demografici che di reddito (basti pensare all’occupazione femminile oppure all’ordine di grandezza degli stipendi di alcuni settori), sorge spontaneo il dubbio riguardo all’efficacia del lavoro per appianare le disuguaglianze sociali. Dubbio ancor più valido considerando che tra 20 anni il 50 per cento dei lavori attuali sarà scomparso e i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 40 per cento. È questo quello che prevedono economisti e esperti di Hi-tech, secondo i quali gli unici lavori che potrebbero salvarsi sono quelli dove la creatività gioca un ruolo cruciale. Che tutto questo sia un male, però, è ancora tutto da dimostrare.

 

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Nel suo libro L'economia della ciambella, la studiosa Kate Raworth afferma che le disuguaglianze non saranno curate né dalla crescita né dalla piena occupazione, utopicamente invocata per risolvere lo squilibrio nella distribuzione dei redditi. Una teoria supportata anche da James Livingston, che spiega come la maggior parte dei posti di lavoro non viene creata dagli investimenti privati delle imprese e che i profitti servono solo per annunciare agli azionisti che l’impresa sta andando bene. Non si può, dunque, riporre la propria fede nel lavoro, sperando che il mercato assegni redditi in maniera equa e razionale. Guardando, infatti, chi sta facendo affari a Wall Street o i manager dei fondi di investimento che hanno consigliato ai loro clienti prodotti non adeguati, viene da domandarsi quale sia la razionalità del lavoro. Se la disonestà e la mancanza di etica pagano, affidare la propria formazione e misurare il proprio valore sulla base del lavoro è stupido, sostiene Livingston, suggerendo l’introduzione di tasse sui profitti delle aziende per finanziare lo stato sociale e gli stipendi di cittadinanza. Un modo per spingere le aziende oltreoceano, dove le tasse sono più basse?

 

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Probabile, ma comunque irrilevante, dal momento che non c’è bisogno di profitti per sostenere o ampliare la forza lavoro. «Fai il tuo, riceverai quello che ti sei onestamente guadagnato». Il principio della produttività sul quale è cresciuto il sogno americano è ormai da rivalutare alla luce dell’(eccessiva) importanza sociale, culturale ed etica del lavoro, che si accompagnava all’idea secondo la quale si vale quanto il mercato del lavoro riporta. Legittimazione fondamentale della nostra esistenza, simbolo di status economico, morale, e valoriale, metro di successo della propria riuscita sociale, del lavoro, finora, non si è mai neppure pensato di poterne fare a meno. Ovvia, quindi, la resistenza incontrata di fronte a proposte come quella del reddito di cittadinanza, da garantire a tutti, indipendentemente dal fatto che si lavori o meno.

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