cologno al serio

«Le Rsa diventino cabine di regia per i bisogni del territorio»

Silvana Marin, direttrice della "Vaglietti Corsini", dopo il terribile periodo del Covid propone una nuova visione per il ruolo delle Case di cura.

«Le Rsa diventino cabine di regia per i bisogni del territorio»
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Le Residenze sanitarie per anziani hanno pagato un duro prezzo al Covid. Oltre alla malattia in sé, che ha colpito con numerosi decessi gli ospiti delle case di cura, per quanti sono rimasti si è aggiunto l’isolamento, che ha tenuto lontani i pazienti – già fragili per natura – dai loro affetti più cari, l’unica cosa rimasta. Proprio da una di queste Rsa, la «Vaglietti Corsini» di Cologno al Serio, nella persona del suo direttore sanitario, la dottoressa Silvana Marin, spunta una riflessione che propone una nuova visione, uno slancio e una volontà di cambiamento. A partire da quanto drammaticamente vissuto, la malattia deve pur avere insegnato qualcosa e per Silvana Marin, le Rsa devono poter dare una risposta al territorio che vada oltre la comprensione di essere solo case di cura. «La domanda nasce spontanea - si chiede la dirigente -: perché non far diventare le nostre strutture “cabine di regia” per la gestione dei bisogni del territorio? Non solo a livello assistenziale, ma anche a livello di formazione e di tutela e gestione della salute. Una prospettiva del tutto nuova, che garantirebbe una maggiore copertura nella risposta ai bisogni espressi dagli anziani cronici e dai loro familiari, riducendo sia l’accesso spesso ingiustificato agli ospedali sia i rischi legati all’ospedalizzazione di soggetti fragili. Servono però nuovo slancio capacità di visione e volontà di cambiamento. Altrimenti la dura lezione del Covid non ci avrà insegnato nulla».


Per la direttrice della «Vaglietti Corsini» «le Rsa sono davvero delle case, sono luoghi di vita e non “scandalose zone grigie” prive di luce, di slanci, di visioni. Sono luoghi che possono raccontare storie di impegno, di dedizione e di responsabilità scritte da chi le guida e da chi le anima con il proprio lavoro e la propria umanità. Sono luoghi che possono scrivere i capitoli di una storia nuova di un futuro che deve vedere le Rsa non come ospedali, ma come luoghi di vita e di comunità; non pezzi alienati del territorio, ma fondamentali punti di snodo all’interno della rete dei servizi territoriali. Ecco: il territorio, il pezzo della rete che ha mostrato più criticità proprio durante l’emergenza Covid. In quest’ottica le Rsa potrebbero rappresentare il punto nevralgico di un sistema che connetta in modo efficace ed efficiente servizi residenziali semiresidenziali e domiciliari. Perché, di fatto, è quello che le Rsa hanno fatto e stanno facendo, grazie alle professionalità in esse presenti e formare a dare una risposta non solo ai bisogni degli anziani ma anche a quelli dei loro cargiver».


Silvana Marin ha trovato la forza di guardare oltre il dramma vissuto, dopo aver elaborato il lutto per così dire, a distanza di tre mesi: «Solo oggi - scrive -, dopo tre mesi, trovo le forze per dire che sì, è vero, abbiamo perso tante persone ma tante sono ancora qui, in attesa di riprendere una normalità che vada oltre gli schemi dei cellulari, le finestre e i plexiglas. Una normalità che profumi di pane e salame in compagnia dei propri cari e che permetta di tornare a gustare la leggerezza di una ritrovata condivisione». E ricorda con dolore: «Non abbiamo potuto salvare tutti, ma credo che sia giusto, oggi, guardare negli occhi chi ce l’ha fatta, chi ha sconfitto la malattia ed è ancora qui con noi. E riconoscere che se sono ancora qui a vivere la loro “casa” è anche perché come operatori (medici, infermieri, fisioterapisti, educatori, personale di servizio e di segreteria) e come amministratori non ci siamo arresi. Non ci siamo tirati indietro. Abbiamo lottato con tutte le nostre forze, imparando a svolgere mansioni nuove, reinventandoci e collaborando per il bene de nostri ospiti. Ci siamo riadeguati, abbiamo trasformato i nostri reparti in reparti ospedalieri: rimboccandoci le maniche, facendo turni doppi, dimenticando orari pause, fame, sonno. Non abbiamo mai abbandonato il letto di chi stava soffrendo, perché responsabili non solo della loro salute, ma anche di quel “di più” di umanità che ci ha fatto stare accanto alla vita morente con un’ultima carezza, con un’ultima parola sussurrata con delicatezza. Abbiamo asciugato lacrime e ingoiato la sconfitta di chi non ce l’ha fatta e, sorridendo con gli occhi, siamo riusciti a curare altri. Siamo riusciti a tirare fuori dai letti chi sembrava non farcela più, siamo riusciti a far mangiare chi non mangiava più, abbiamo continuato ad essere vicini a tutti in ogni momento, vedendo piccoli miglioramenti, ma che rischiavano di spegnersi di nostalgia per l’isolamento e la lontananza da figli, nipoti, conoscenti».

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