Dopo l'arresto del sindaco dell'isola campana

Cosa ha fatto indignare D'Alema (e a ben vedere non ha affatto torto)

Cosa ha fatto indignare D'Alema (e a ben vedere non ha affatto torto)
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Sono ormai incalcolabili le denunce che Massimo D’Alema ha minacciato nei giorni scorsi nei confronti di giornalisti, quotidiani e mezzi di informazione in generale. La ragione, naturalmente, riguarda il paventato coinvolgimento dell’ex Premier nello scandalo che ha travolto il comune di Ischia questa settimana, e che ha portato all’arresto del sindaco Giuseppe Ferrandino e di altre nove persone nell’ambito di un’indagine per tangenti legate alla costruzione di un metanodotto sottomarino nei pressi dell’isola campana. Stando ai documenti della magistratura e alle intercettazioni pubblicate sui giornali (quest’ultimo il motivo dell’ira di D’Alema), fra lo storico leader della sinistra italiana e la cooperativa coinvolta nell’indagine sarebbe avvenuto uno scambio di favori finalizzato ad obiettivi illeciti.

Cos’è successo a Ischia, per capire. L’accusa da parte degli inquirenti riguarda una dinamica di corruzione avente per parti il comune di Ischia e la cooperativa Cpl Concordia, che opera nell’ambito dell’ingegneria infrastrutturale: secondo gli inquirenti, alcuni dirigenti di Cpl avrebbero corrotto il sindaco ischitano Ferrandino al fine di ottenere la gestione dei lavori in merito ad un metanodotto che si sarebbe dovuto costruire presso i fondali intorno all’isola. I reati contestati, a vario titolo, vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione (anche internazionale), dalla turbata libertà degli incanti al riciclaggio e all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo l’accusa, il sistema corruttivo sarebbe basato sulla costituzione di fondi neri in Tunisia da parte della Cpl Concordia con cui retribuire pubblici ufficiali al fine di ottenerne favori nell’aggiudicazione di appalti.

 

 

Cosa c'entra l'ex-Premier. E D’Alema? Il nome del politico è emerso in seguito ad intercettazioni telefoniche avvenute tra Francesco Simone e Nicola Verrini, entrambi dirigenti di Cpl Concordia in qualità di responsabili dei rapporti istituzionali l’uno e direttore dell’area commerciale l’altro. Nelle telefonate viene più volte fatto il nome di D’Alema, chiamato in causa da Simone così: «D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». È stato dunque paventato un coinvolgimento dell’ex Premier all’interno della vicenda, il quale, secondo i magistrati, si sarebbe fatto comprare 500 copie del suo ultimo libro (Non solo euro) e 2mila bottiglie del vino prodotto dalla sua famiglia in cambio di una mano nella realizzazione della dinamica corruttiva. Si è allora scatenata la bufera mediatica anche sul membro del Partito democratico.

Cosa ne pensa D’Alema. Il leader Pd è apparso in questi giorni particolarmente infastidito, per usare un eufemismo, dal vedere il proprio nome associato all’indagine; in particolare, sarebbe stata l’arbitraria e incontrollata pubblicazione di intercettazioni telefoniche su tutti i giornali a scatenare l’ira di D’Alema, nonostante il fatto che quest’ultimo non rientri nel registro degli indagati dalla magistratura. In un’intervista rilasciata al Corriere, D’Alema, oltre che ribadire la sua estraneità ai fatti e che gli acquisti menzionati (libri e vino) fossero semplici trattative fra commerciante e cliente con tanto di fatturazione, si è soffermato con decisione sul tema della mancanza di tutela nei confronti di coloro che non sono indagati, ma che vengono comunque trattati da magistratura e mass media esattamente alla stregua di coloro che invece indagati lo sono.

 

 

L'intervista. «Tutelare chi non è indagato», è così che D’Alema tuona sulle pagine del Corriere. Il tema, che ebbe già una sua prima miccia con la vicenda “Grandi Opere” e con le dimissioni forzate del Ministro Lupi, sta divenendo in questi giorni un vero e proprio incendio, che vede coinvolti proprio D’Alema, l’Associazione nazionale magistrati (Anm) e Consiglio superiore della magistratura (Csm). Tornando alle parole dell’ex-Premier, egli lancia un pesante attacco nei confronti del sistema inquirente, sostenendo che «se le inchieste avessero l’obiettivo di una più efficace ricerca delle prove, anziché di qualche forma di pubblicità, credo sarebbe più utile alla giustizia e alla moralità pubblica. […] Credo che l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, ma anche l’Associazione magistrati, dovrebbero esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola. Non ritengo legittimo un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti».

La replica di Anm e Csm. Parole molto chiare e dure, che in serata hanno trovato doppia replica. Prima ha risposto l’Anm, che in una nota stampa sottolinea che «la riservatezza va tutelata, ma non si possono mettere in discussione le intercettazioni come strumento d’indagine». Poi è stato il turno del Csm, nella persona del vicepresidente Giuseppe Legnini: «Il presidente D’Alema pone un tema serio, quello della riservatezza e dell’onorabilità delle persone non indagate. Il Csm però non è munito di poteri d’intervento d’ufficio, può intervenire se investito dal pg o dal ministro. Il tema della fuga di notizie, quindi, meriterebbe un intervento legislativo appropriato». I recentissimi casi di Lupi e D’Alema stanno dunque aprendo un dibattito molto importante a proposito del rapporto fra indagini della magistratura e pubblicizzazione delle stesse e sul tema della tutela e della riservatezza nei confronti dei soggetti coinvolti (a maggior ragione se non indagati), da tempo auspicato da più parti e ora arrivato, parrebbe, ad un reale punto di non ritorno. Dibattito che, stando alle parole delle parti protagoniste, non può che avere un unico sbocco: un intervento legislativo mirato.

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