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L'Egitto bombarda la Libia Renzi: «Non è tempo di intervenire»

L'Egitto bombarda la Libia Renzi: «Non è tempo di intervenire»
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Gli italiani hanno lasciato la Libia e la nostra ambasciata a Tripoli ha chiuso. Era l’unica sede diplomatica europea rimasta aperta dopo l’aggravarsi della crisi degli ultimi mesi. Il piano di rimpatrio degli italiani presenti nel Paese, tra 50 e 100 secondo quanto afferma il Times of Malta, è avvenuto tramite una nave mercantile maltese scortata da un mezzo della Marina militare e monitorata dall’alto da un Predator dell’Aeronautica. A terra, la mansione di scorta è stata svolta dai carabinieri che presidiavano l’ambasciata. A bordo del mercantile diretto prima a Malta e poi al porto siciliano di Augusta, il personale diplomatico, i dipendenti Eni e di altre imprese italiane e una ventina di mezzi tra auto e camion

Tuttavia, la Farnesina non vuole parlare di «evacuazione» ma preferisce definirla un’operazione di «alleggerimento» della presenza italiana nel Paese. C’è ancora un centinaio di persone che ha deciso di rimanere nonostante gli inviti dell’ambasciata. Intanto, il caos libico ha ormai raggiunto livelli mai visti e, mentre gli jihadisti dell’Isis diffondono l’ennesimo video che confermerebbe la decapitazione dei 21 egiziani copti, da Tripoli arrivano testimonianze drammatiche sulla presenza di tagliagole che impazzano nelle strade. Ovunque ormai sventolano le bandiere nere dello Stato Islamico.

 

 

L’Italia interverrà militarmente? A quanto pare no. Nella giornata di ieri, domenica 15 febbraio, sembrava imminente la decisione italiana di intervenire militarmente, accompagnata dalla preoccupazione dell’opinione pubblica per le imprevedibili conseguenze che una guerra avrebbe portato con sé. Il premier Matteo Renzi, intervistato dal Tg5, ha però frenato e dichiarato che «non è il momento per l'intervento militare, apprezzo molto che su politica estera non ci siano divisioni tra i partiti. Vedremo che fare quando sarà il momento ma è bene che sulla una situazione di politica estera delicata il paese non si metta a litigare», invocando gli strumenti diplomatici a disposizione della Comunità Internazionale per trovare una soluzione alla gravissima crisi e aggiungendo che occorre «saggezza, prudenza e senso della situazione».

Ma le ire dell’Isis l’Italia se le era già attirate con le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che si diceva pronto a intervenire nel quadro della legalità internazionale. Gli jihadisti lo subito hanno ribattezzato «ministro dell’Italia crociata». A premere per la guerra sembra essere anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Dalle colonne del Messaggero, in un’intervista, ha affermato che l’Italia sta discutendo da mesi l’ipotesi di un intervento e che ora la questione sarebbe diventata di massima urgenza. Stando a quanto afferma il ministro Pinotti, la missione potrebbe essere significativa e numericamente impegnativa. Così come in Afghanistan sono stati inviati 5mila uomini, a maggior ragione potrebbe profilarsi un impegno simile in Libia. Del resto Roma e Sirte sono separate da una distanza di 1250 chilometri.

L’Italia, secondo il ministro della Difesa, potrebbe guidare una coalizione internazionale a cui parteciperanno i Paesi dell’area Mediterranea, la Francia, la Germania, e nella quale saranno strategicamente coinvolti anche gli Stati Uniti. Potrebbe essere al vaglio una missione sullo stile di quella Unifil in Libano, cioè una forza di interposizione tra le diverse parti in causa. Per pianificare l’operazione sono stati chiamati gli Stati Maggiori della Difesa. Si pensa al coinvolgimento dei reparti speciali di Esercito e Marina, con il supporto dell’Aeronautica.

Ma per il momento, con lo stop di Renzi, tutto rimane sulla carta. Almeno finché l’Onu non si pronuncia. Intanto, a bombardare le postazioni libiche dell’Isis ci ha pensato l’Egitto, che dalla notte ha iniziato una serie di raid aerei in cui finora sono rimasti uccisi una sessantina di miliziani. All’operazione hanno partecipato anche i caccia libici, su ordine del generale Haftar.

 

 [Dopo un bombardamento egiziano in Libia]

http://youtu.be/-qiKHmTHJk8

  [Egiziani piangono i copti decapitati dall'Isis]
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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

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Gli egiziani piangono la morte dei 12 copti decapitati dall'Isis. (AP Photo/Hassan Ammar)

Favorevoli e contrari. Non appena l’ipotesi di intervento militare ha iniziato a farsi strada, si sono delineati gli schieramenti politici favorevoli e contrari a una campagna militare per mano italiana in Libia. Forza Italia, con l’ex premier Silvio Berlusconi, ha detto sì:  «Un intervento di forze militari internazionali, sebbene ultima risorsa, deve essere oggi una opzione da prendere in seria considerazione». Categorico il Movimento 5Stelle, che si oppone a qualsiasi intervento, perché «la storia ci insegna che la guerra in passato ha sempre contribuito ad alimentare il terrorismo e l’attuale scenario mediorientale, con l’insorgere di nuove e pericolose organizzazioni terroristiche come lo Stato Islamico, ne è la più chiara e nitida dimostrazione». Rafforza il pensiero pentastellato anche il suo leader Beppe Grillo che dal blog tuona: «Se Renzie vuole la guerra ci vada lui con Napolitano al seguito. Vedendoli, l'Isis si farà una gran risata e ci risparmierà. Non spetta al Governo decidere se entrare in guerra ma ancora al Presidente. Aspettiamo un monito dal Presidente, anche piccolo piccolo, al bulletto di Rignano. No alla guerra». Anche la Lega Nord di Matteo Salvini mette in guardia il governo dai rischi di un intervento militare in Libia. Più possibilista sembrava Sel, che in una nota ieri affermava: «In una fase successiva al negoziato dell’Onu si può immaginare e sostenere come Italia una missione a guida Nazioni Unite che abbia funzione di peacekeeping e di state building, ovvero di ricostruzione della statualità condivisa». Anche qui il tiro è stato corretto dal leader Nichi Vendola, che in tweet ha dichiarato «Contro Isis mettere in campo strategia vera, si ragioni con serietà. Onu e diplomazia internazionale si muovano rapidamente».

Il quadro politico libico oggi. Oggi in Libia ci sono due parlamenti e due governi, in due sedi distinte: quello di Tobruk, in Cirenaica, presieduto da Abdullah al-Thani e risultante dalle elezioni del giugno 2014, internazionalmente riconosciuto, e quello di Tripoli, islamista, presieduto da Omar al-Hassi e risultante dalla precedente Assemblea transitoria. Questi due parlamenti non possiedono capacità di governo, ma esercitano il loro controllo su un Paese grande sei volte l’Italia, per lo più desertico ma con un sottosuolo ricchissimo di petrolio, e abitato da soli 6 milioni di persone, che si riconoscono in clan tribali tra loro rivali. Si ritiene ci siano oltre un milione di libici armati, suddivisi in 1500 milizie che tra loro non sono coordinate e si fanno la lotta a vicenda.

 

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Da Gheddafi a oggi. Tutto in Libia ebbe inizio il 17 febbraio 2011, esattamente quattro anni fa. Sull’onda dei venti delle cosiddette Primavere arabe che stanno soffiando nei Paesi vicini, il 15 febbraio alcune migliaia di persone scendono in piazza a Bengasi nell'anniversario del massacro nel carcere di Abu Slim di Tripoli del 1996. Due giorni dopo le proteste si allargano ad altre città e prende il via la Rivoluzione del 17 febbraio contro il colonnello Gheddafi che per 42 anni è stato il padre-padrone della Libia. Il Rais cerca di difendere il suo potere ordinando alle forze armate di minacciare la popolazione. Una risposta duramente criticata dalla Comunità Internazionale che inizia a comminare sanzioni economiche nei confronti di Gheddafi, della sua famiglia e dei suoi interessi all’estero. L’Onu, in una risoluzione, stabilisce che è consentito l’uso di qualsiasi mezzo pur di proteggere i civili, e il 19 marzo 2011 la Francia inaugura i raid aerei e a fine mese la Nato prende il controllo dell’operazione, che si conclude il 31 ottobre. Anche l’Italia vi partecipa.

Dopo 9 mesi di guerra civile, durante i quali il CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) ha controllato e gestito le aree in cui i ribelli si opponevano al regime, per il colonnello arriva l’epilogo. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi, che da due mesi si era dato alla fuga, viene catturato e sommariamente ucciso  a Sirte, sua città natale. Il Consiglio nazionale transitorio dichiara la liberazione della Libia. L’anno successivo vengono indette le prime elezioni libere del Paese e vincono i moderati. Ciononostante il Paese rimane in preda alle milizie. Oltre alle elezioni del Congresso Generale del 2012, nell’arco temporale di due anni si sono svolte anche le elezioni per l’Assemblea Costituente e per la Camera dei Rappresentanti, che invece di unire la Libia l’hanno ulteriormente divisa. Dopo l’intervento militare del 2011, infatti, è mancata la cosiddetta fase di “nation building” e si è puntato solo sull’espressione nelle urne di un popolo totalmente incapace di governarsi dopo 42 anni di regime dittatoriale. Una situazione a cui va aggiunta la natura tribale della popolazione libica.

La situazione è precipitata ancora di più negli ultimi mesi con l’espansione degli jihadisti fedeli al sedicente Stato Islamico. Da ottobre, quando gli integralisti di Derna giurano fedeltà al califfo Abu Bakr alBaghdadi, parte l'avanzata dell'Isis verso Tripoli e Sirte. Oltre all’Isis sono molte le formazioni dichiaratamente jihadiste apparse sulla scena libica dal 2012 e si sono progressivamente rafforzate con lo sgretolarsi del Paese.

 

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Il generale Khalifa Haftar. Nel maggio 2014 l’ex generale Khalifa Haftar dà il via all'operazione “Dignità” per liberare la Libia dagli islamisti. Nato nel 1949 a Bengasi si forma militarmente nell’ex Unione Sovietica e nel 1979 partecipa al Golpe del Colonnello al fianco di Gheddafi. Durante la guerra con il Ciad degli anni ’80 viene rinnegato da Gheddafi che lo ritiene responsabile della pesante sconfitta di guerra. Inizia così il suo lungo esilio negli Stati Uniti, dove ha avuto modo di avviare una serie di preziosi contatti nell’intelligence americana, tanto che Gheddafi lo accusò a distanza di essere un agente della Cia.

Con l’avvio delle proteste che portarono alla deposizione del Rais, l’ex generale Khalifa Haftar fa ritorno in patria e si riaffaccia sulla scena politica, vestendo sempre la divisa militare: viene nominato prima capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt), e poi diventa il numero 3 nel nuovo esercito libico, ottenendo i gradi di tenente generale. Dopo l’intervento di francesi, inglesi e americani del 2011 in Libia, che fa istituire un nuovo Parlamento, un nuovo esercito e un nuovo governo, tutti a guida islamica, Haftar comincia a criticare il Cnt, il nuovo Parlamento e la progressiva islamizzazione del Paese. Fino al maggio scorso quando lancia la sua operazione Dignità. Personaggio dal passato poco limpido, viene dapprima accusato di colpo di Stato e poi riassorbito nelle forze armate regolari contro gli jihadisti. Da ieri circolano voci insistenti che danno Haftar nuovo “Comandante generale delle Forze armate libiche e ministro della Difesa” del parlamento di Tobruk.

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