Parla il direttore Oliviero Valoti

L'ospedale da campo un mese dopo. Attualmente i ricoverati sono 42

È passato un mese da quell'inizio faticoso, un mese dove la struttura ha combattuto il Covid con qualche nozione medica in più, unita alla competenza di medici e infermieri venuti da tutto il mondo

L'ospedale da campo un mese dopo. Attualmente i ricoverati sono 42
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di Heidi Busetti

5 aprile 2020. Manca un giorno all’apertura dell’ospedale da Campo di Bergamo. Il personale sanitario si muove all’interno della struttura facendo prove con manichini che diventano pazienti Covid. La tensione è palpabile, la stanchezza alle stelle. Si arriva dal mese più nero che i bergamaschi ricordino a memoria d’uomo. L’ospedale da Campo, un miracolo di velocità e solidarietà, nasce con un obiettivo preciso: alleviare gli ospedali dalla pressione del Covid, per ripristinare reparti “puliti” dove le persone possano farsi curare in serenità. È passato un mese da quell'inizio così faticoso, un mese dove l’Ospedale ha combattuto il Covid con qualche nozione medica in più, unita alla competenza di medici e infermieri venuti da tutto il mondo. A raccontarci il percorso compiuto è Oliviero Valoti, responsabile sanitario del presidio in Fiera, che traccia un quadro preciso con numeri alla mano.

Quasi un mese di attività. Come sta andando?

«Direi che sta andando bene. Abbiamo aperto il 6 aprile con qualche malato trasferito da strutture ospedaliere, in particolare dal Papa Giovanni, così da testare che tutto funzionasse a dovere. Erano pazienti a bassa intensità di cura per verificare che tutta l’organizzazione fosse efficiente. Poco dopo abbiamo accolto i primi due pazienti critici per verificare anche le attività sull'alta intensità di cura. Via via, abbiamo iniziato ad accogliere pazienti anche dal territorio, portati direttamente con le ambulanze del 118».

È stato difficile reggere il carico di lavoro?

«In realtà no, poiché le necessità sia per l’intensità delle richieste, sia in termini di impegno clinico, si erano già notevolmente ridotte. Calcoli che il picco di degenti è stato al massimo di 43 persone. Inoltre i medici hanno capito di più dal punto di vista delle cure e i pazienti hanno concesso al sistema sanitario di essere intercettati prima che le condizioni diventassero gravi».

La peculiarità di questa struttura?

«Il paziente viene seguito fino al termine del trattamento, fino a che cioè ci rendiamo conto che o si è guariti completamente o che ciò che rimane è una cronicizzazione, a cui va spesso associata una ossigenoterapia domiciliare. Negli ospedali invece, nel mese di marzo, una volta ristabilite le condizioni i pazienti venivano dimessi un po’ anticipatamente, sempre ovviamente con una dimissione protetta, fatta di bombole d’ossigeno e riabilitazione a casa, per far posto ad altri. Purtroppo ci si è accorti solo dopo che questa malattia, determinando tanti processi di tipo tromboembolico, ha causato decessi improvvisi anche in persone giovani, costrette a rimanere a casa. Ora abbiamo una struttura dedicata e la medicina ha fatto passi avanti nella lotta al Covid, ma non si è ancora compreso tutto».

Oliviero Valoti, direttore dell'ospedale da campo alla Fiera (foto di Devid Rotasperti)

Alcuni medici sostengono che questo sia dovuto al fatto che dalla Cina non siano arrivati protocolli di cura. Lei ci conferma la notizia?
«In parte. Personalmente ho visto alcune pubblicazioni scientifiche provenienti dalla Cina. Il problema qual è? Che in Cina hanno avuto dei grossi numeri e su una popolazione più giovane, ma noi ne abbiamo avuti molti di più. Diciamo che le informazioni a nostra disposizione per combattere il virus all'inizio della pandemia non erano risolutive: se noi avessimo saputo prima, ad esempio, che uno dei problemi principali, al di là del quadro clinico della polmonite, era dovuto a processi tromboembolici causati da un danno endoteliale diffuso dal virus, probabilmente saremmo partiti con un altro tipo di terapia che è l’associazione degli steroidi cortisonici con l’anticoagulazione. Purtroppo è stato possibile capirlo solo strada facendo».

Come personale medico e materiale sanitario state riscontrando delle criticità, oppure riuscite a coprire tutte le esigenze dell’ospedale?

«Al momento nessuna difficoltà. E questo per diversi motivi: primo perché il 6 aprile lo scenario sul territorio era cambiato notevolmente, grazie all'alleviarsi della pressione. Secondo perché l’ospedale è stato studiato pensando a uno scenario pari a quello che si è verificato nel periodo di punta del Papa Giovanni, quindi con 142 posti letto, metà dei quali da gestire con casco da cpap, ma ad oggi di questi ultimi ne sono stati utilizzati forse cinque o sei. Quindi, cambiando radicalmente lo scenario, sono cambiate radicalmente le necessità. Il problema dell’ossigeno non c’è mai stato, né il problema delle apparecchiature elettro-medicali. L’ingegneria clinica del Papa Giovanni ci ha messo a disposizione monitor multiparametrici, pompe di infusione, respiratori. Senza contare i 29 respiratori di alto livello, messi a disposizione dalla delegazione russa. Addirittura ne abbiamo di scorta».

Parliamo del personale sanitario. Il fatto che provenga da varie parti del mondo ha creato difficoltà?

«Pensavamo di sì. In realtà anche qui ce la siamo cavata molto bene. Un settore di terapia intensiva con 12 posti letto è sempre stato gestito da Emergency che, in effetti, ha avuto qualche difficoltà per il semplice fatto che alcuni medici all'estero, impegnati in vari progetti, non sono potuti arrivare a causa del blocco dei voli. Ci siamo organizzati allora con tre rianimatori reclutati tramite le liste di Protezione Civile e l’Associazione Nazionale Alpini. Un secondo settore di terapia intensiva e sub-intensiva è invece gestito dal contingente russo, colleghi militari estremamente efficienti. Il restante personale per le degenze è stato reclutato per la maggior parte dal nostro ufficio del personale attraverso un bando».

Oggi quanti ricoverati sono presenti nella struttura?

«In questo momento sono 42, di cui sei in terapia intensiva e quattro in subintensiva. Ultimamente, tra l’altro, sono molto pochi i malati che arrivano dal territorio. L’intenzione ora è di organizzarci per aiutare le strutture ospedaliere, in particolare il Papa Giovanni, ad accelerare per tornare alla normalità e far sì che l’ospedale da campo diventi un centro HUB per la malattia. Anticipiamo dunque la dimissione dagli ospedali per transitare qui i malati di Covid, così da guarirli o dimetterli con cronicità e conseguente terapia a casa».

Possiamo dunque affermare che ci sono solo buone notizie al momento?

«Direi proprio di sì. Questo ovviamente non significa che possiamo abbassare la guardia, sarebbe un atteggiamento pericoloso che potrebbe riportarci a marzo. Il pericolo non è ancora cessato».

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