Dal Cairo diceva: ho paura

Le ultime sull'assassinio di Regeni

Le ultime sull'assassinio di Regeni
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Si fa sempre più strada l’ipotesi che a uccidere Giulio Regeni, il dottorando italiano che da qualche tempo si trovava in Egitto, non sia stata una rapina finita male. I sospetti sono tutti sui servizi segreti di un Paese dove dal 3 luglio 2013 con un golpe è salita al potere la dittatura militare di Al Sisi. Inoltre sta prendendo corpo il sospetto che il giovane sia stato ucciso già da diversi giorni e poi fatto ritrovare lontano dalla capitale proprio per sviare le indagini. Ma le cause del decesso sono ancora tutte da chiarire: sul corpo del giovane ricercatore friulano sono stati trovati segni di bruciature di sigaretta, tortura, ferite da coltello, segni di una “morte lenta”. Almeno questo è quello che il procuratore egiziano ha riferito alla Associated Press. Una versione che discosta non poco da quella fornita dai responsabili diretti delle indagini in Egitto, che parlano di un incidente stradale e che Regeni «non è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco o accoltellato». Intanto però, l’agenzia Dpa scrive che ci sono stati due arresti per la morte del ragazzo: per ora non ci sono conferme ufficiali, così come non viene specificato se i due sono egiziani o stranieri.

 

Studente scomparso Cairo, da famiglia nessuna novità

 

Le reazioni della politica. Il presidente egiziano, l’ex generale Abdel Fattah al Sisi, ha espresso il suo cordoglio e ha telefonato al premier Matteo Renzi, sostenendo di essere pronto a offrire tutta la collaborazione per arrivare alla verità sulla morte del giovane. Anche perché, sostiene Al Sisi secondo l’agenzia Mena, quello di Regeni è un caso a cui «le autorità egiziane attribuiscono un'estrema importanza». Sarà forse questo il motivo per cui nella zona attorno all’obitorio dove è stato portato il corpo di Regeni, secondo quanto riferisce sulla sua pagina Facebook l’avvocato egiziano dei diritti umani, Mohamed Sobhy, c’era «un’eccezionale presenza dei servizi di sicurezza». Dall’Italia, dichiara il ministro dell’interno Angelino Alfano su Rai Tre, «stanno partendo squadre di investigatori italiani per collaborare con la polizia egiziana e sono convinto che Al Sisi non si sottrarrà alla collaborazione e che i buoni rapporti con l'Egitto siano un fluidificante che aiutino nella ricerca della verità». Intanto la procura di Roma procede per il reato di omicidio a carico di ignoti. Anche il Presidente Mattarella chiede giustizia e verità, perché un «crimine così efferato non può rimanere impunito».

 

++ Fonti, corpo studente trovato in un 'fosso' al Cairo ++

 

Cosa ci faceva Regeni al Cairo. Giulio Regeni al Cairo si trovava per studiare l’economia egiziana. Non si occupava di politica, anche se è impossibile capire le geometrie economiche di un Paese prescindendo dalle sue scelte politiche. Per questo Regeni, probabilmente, era scomodo a qualcuno. Anche perché, come spiegano i giornalisti del Manifesto, giornale con cui Giulio collaborava sotto pseudonimo raccontando la realtà del movimento sindacale sotto il regime di Abdel Fatah al Sisi, da qualche tempo non si sentiva sicuro. Oggi lo stesso quotidiano ha deciso di pubblicare l’ultimo pezzo scritto da Regeni, un reportage che risale a metà gennaio ma che non era mai stato pubblicato, nemmeno sotto pseudonimo, proprio perché dopo averlo inviato al giornale di Regeni si erano perse le tracce.

Le altre sparizioni in Egitto. Un desaparecido, una sorte comune a quella di moltissimi attivisti da quando Al Sisi è al potere. Secondo il New York Times, il ricorso all’arresto e alla tortura è una vera e propria tattica del regime del presidente contro gli oppositori. Molti finiscono in carcere e molti altri in centri di detenzione segreti, dove nessuno è ammesso a entrare per le visite. Nemmeno gli avvocati. Si stima che spariscano in media tre persone al giorno: attivisti, giornalisti, semplici cittadini, oltre a esponenti della fratellanza musulmana. Tutti catturati e torturati da polizia e servizi segreti. Man mano che emergono altri particolari sulla figura di Regeni, sembra che anche lui sia finito in questa terribile rete. Con la sola colpa di voler capire, documentarsi e poi raccontare quanto accade in quel Paese.

 

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Cosa dice l’articolo. Nel suo articolo pubblicato oggi dal Manifesto il giovane ricercatore offre uno spaccato del movimento sindacale indipendente egiziano, del suo momento di crisi e di come con l’avvento di Al Sisi al potere la lotta sindacale si sia frantumata, lasciando spazio e numerose sigle che operano in autonomia e senza confrontarsi tra loro. Al di là dei dettagli in cui scende Regeni, il punto fermo attorno a cui ruota tutto il pezzo è la netta denuncia sull’assoluta mancanza di libertà di stampa, sul continuo attacco da parte del governo ai «diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013», sulla repressione in atto nel Paese. Nonostante questo contesto autoritario, però, Regeni ha voluto sottolineare come in Egitto molti lavoratori abbiano avuto il coraggio di indire una ondata di scioperi che investono molti settori, dal tessile al cemento, fino all'edile, per rivendicare «l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche».

Le conclusioni del reportage. Significativo è l’ultimo passaggio dell’articolo, che denota una profonda conoscenza del Paese e delle sue dinamiche socio-politiche. Regeni sostiene che questi scioperi «da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del Paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan "Pane, Libertà, Giustizia Sociale" non sono riuscite sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex generale Al Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla "guerra al terrorismo", significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile».

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