In difesa della nostra lingua

Ma come scrivono i ragazzi italiani? I 10 errori grammaticali più diffusi

Ma come scrivono i ragazzi italiani? I 10 errori grammaticali più diffusi
Pubblicato:
Aggiornato:

Siamo entrati nella settimana mondiale dedicata all’italiano, in particolar modo all’italiano usato nelle canzoni. Italiano della musica, musica dell’Italiano è infatti il titolo che è stato dato alla sette giorni che celebra la lingua del sì. In occasione di tale ricorrenza, il sito Skuola.net, in collaborazione con Radio3, il Ministero dell’Istruzione, degli Affari Esteri, della Cooperazione Internazionale, con Accademia della Crusca e Asli, Associazione per la Storia della Lingua Italiana, ha individuato i dieci errori più ricorrenti che vengono commessi dai giovani d’oggi, almeno secondo i temi della Maturità 2015. C’è chi è “entusiasto” di tutto (entusiasto, perché per i maschi ci vuole sempre la “o”!) e chi non ha ancora compreso la differenza tra i pronomi le/gli. Ma gli errori più pesanti, quelli che si fanno davvero troppo spesso, sono ben altri.

 

10) L’irresistibile fascino dell’“A me mi”.

Eh sì, si comincia a dir così quando si è poco più che infanti e togliersi il vizio è dura, almeno per il due percento dei ragazzi. L’espressione “A me mi piace” è scorretta perché costituisce quello che, tecnicamente, si definisce un pleonasmo, cioè una ridondanza, ovvero una ripetizione. Pensateci un po’ su: "A me” ha la stessa funzione logica del pronome “mi”. In altre parole, è come se ripeteste per due volte il complemento di termine che accompagna il verbo. Per parlare e scrivere correttamente basta togliere “a me” o “mi”: “a me piace”, o “mi piace”.

 

 

9) “L” o “r”? Pultroppo non è chiaro.

Il sei percento degli studenti è stato influenzato dalla difficoltà tutta orientale di pronunciare per bene la consonante che gli antichi romani definivano “canina” per il suo suono aspro, ovvero la rutilante “r”. Al suo posto alcuni giovani ci mettono la più morbida “l”, che è consonante liquida al pari di “r”, ma non è ovviamente interscambiabile. Insomma, non usate la “l” come se fosse prezzemolo, che una volta si metteva dappertutto. Se avete difficoltà a memorizzare la dura verità che la “r” è anch’essa necessaria alla lingua italiana, provate a farci amicizia con qualche scioglilingua: “tRentatRè tRentini entRaRono tRotteRellando a TRento…”

8) C’è ne sono. Traduzione: ci è sono.

Ci casca un giovane su dieci. Per evitare di incappare in questo ignominioso pasticciaccio grammaticale è sufficiente “tradurre” quello che si è scritto in termini grammaticali. “C’è ne sono” ripete per due volte il verbo “essere”. In questo modo la frase perde qualsiasi senso logico. È ovvio che si intendeva dire “ce ne sono”, cioè si voleva usare una forma pronominale per alludere a qualcosa che c’è (per l’appunto).

7) Do, re, mi, fà.

Il quattordici percento degli studenti ha scritto nei propri temi “tanto tempo fà”, “qualche ora fà” e via dicendo. Ovviamente l’accento non ci sta bene, sul fa. Non esiste alcuna possibilità di confondere il “fa”, che è nota musicale, con il “fa”, che fa parte della locuzione temporale, anche perché le note musicali vanno scritte con la maiuscola, Fa. Inoltre, anche quando “fa” va ricondotto alla voce del verbo “fare”, non vuole mai l’accento. Tutt’al più bisogna metterci un apostrofo quando lo si usa all’imperativo (“Fa’ la lavatrice!”), perché l’apostrofo segnala la caduta della vocale “i”. L’accento va messo solo ed esclusivamente nei composti di fare (confà, tumefà, rifà).

 

 

6) Insuffic(i)ente. Lo strano caso della “i” scomparsa.

Più del 18 percento dei giovani italiani madrelingua ritiene che “sufficiente” vada scritto “sufficente” e “insufficiente” sia “insufficente”. E invece no. La “i” ci vuole, eccome. Ricordate le settimane interminabili durante le quali le maestre di italiano ci hanno tuonato contro per farci imparare tutte quelle paroline infide, come “coscienza”, “insufficienza”, “scienza”? Se la riposta è no, meglio che andiate a recuperare i vecchi quaderni dalle copertine in plastica colorata.

5) Perché “conosciere” è importante.

Dopo la “sufficenza” non poteva mancare la “conoscienza”. Per un principio di giustizia compensativa, la “i” sottratta alla (in)sufficienza è stata magnanimamente concessa alla conoscenza, orbata per lunghi secoli della compagnia della vocale più contesa di tutte. Addirittura un ragazzo su quattro dice di “conosciere” la lingua italiana. Uhm. Magari no.

4) Da o dà? Che differenza fà, se si scrive da.

Di nuovo, “fà” viene scritto con l’accento, e “da”, terza persona singolare del verbo “dare”, invece senza accento. Il 72 percento dei diciannovenni scriverebbe «Mario da un abbraccio a Giulia», facendo una sovrana confusione con la preposizione semplice (sì, proprio quella del “di, a, da, in, con, su, per, tra, fra”). Ragazzi, voce del verbo dare chiama accento: dà. Fine.

 

 

3) Abbasso l'apostrofo! Ci piace un pò.

«Datemi un po’ d’acqua», «un po’ di pane per favore», «un po’ di sole». Il “poco” apocopato e quindi scritto po’ è diventato un bel pò, cioè una parola tronca di origine sconosciuta, ma che piace tantissimo ai ragazzi. D’accordo che quando lo si pronuncia si accenta la “o”, ma lo si fa solo perché “po’” è un monosillabo, quindi l’accento non potrebbe cadere su nessun altra sillaba.

2) Qual’è l’errore?

Il trentotto percento degli studenti si ostina a scrivere “qual è” con l’apostrofo. Non plus ultra.

1) «Qualcun’altro», scrisse. E invece è sbagliato.

Quasi la metà dei maturandi (45 percento, per la precisione), ha scritto “qualcun'altro” con l’apostrofo, che quindi sarebbe come un “qualcuno altro”. Roba da non leggersi.

Seguici sui nostri canali