I ricordi della gente

Montelungo, storie dal passato Tra soldati e povere donne

Montelungo, storie dal passato Tra soldati e povere donne
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Foto Comune di Bergamo

 

Polvere. Scavatori gialli grandi come tirannosauri che addentano i muri della vecchia caserma e li strappano, li abbattono; la polvere che si spande è l’ultimo respiro. Per qualche ora mozziconi di muri rimangono in piedi, allora è possibile ammirare pietre e mattoni disposti in una tessitura paziente, sapiente, un lavoro di inizio Novecento, prima che si affacciasse l’era del cemento. La vecchia caserma si frantuma sotto i colpi delle macchine e si apre al futuro. In realtà se ne era già andata quando l’ultimo soldato aveva chiuso la porta alle spalle. Da anni l’edificio sopravviveva a se stesso, perdeva pezzi, calcinacci. Ora cade per tornare a vivere. Niente fucili e niente cannoni. E neppure muli e jeep. Dai soldati agli studenti universitari.

La caserma e la vita del quartiere. Dice Carla Lupo Pasini che abita in via San Giovanni da sessantotto anni: «La caserma per noi di via San Giovanni era parte della vita. Ci si alzava al mattino con la tromba della sveglia, poi suonava quella dell’adunata. Alla sera si andava a dormire quando il trombettiere superava il portone e usciva sul piazzale, accanto alla garitta con il soldato di guardia: suonava la ritirata. Erano le dieci. Mi sembra ancora di sentirla. Quando alle sei del pomeriggio scattava la libera uscita, un fiume di soldati riempiva la strada. Per questa ragione nella nostra via c’erano diversi bar, caffè, trattorie. Per questa ragione c’era (e c’è ancora) la lavanderia, proprio di fronte. E anche il barbiere (che pure resiste)».

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Le prostitute. E c’erano nella via anche situazioni “peccaminose”, di prostituzione. Continua Carla: «Una era la Barbara che era piccola e grassottella, aveva anche il collo corto; metteva sempre una gonna nera oppure un’altra a quadretti, arrivavano appena sopra il ginocchio, scarpe con il tacco nere e dolcevita a costine, d’inverno a maniche lunghe e d’estate a maniche corte, capelli unti e neri, lunghi fino alle spalle. Poi c’era la Stomeghù, cioè la Stomacona, chissà perché la chiamavano così. Certo, aveva un gran seno. Veniva al parco Suardi con i due figli che giocavano con noi. Lei se la faceva con i militari. Manteneva i figli. E la Cadei che era zoppa». In attesa dei soldati (ma non solo) le donne “di malaffare” andavano al Vittorio Veneto, la trattoria che stava al numero 8, o al parco Suardi. Continua Carla Lupo Pasini: «Io nei primi Anni Sessanta lavoravo al panificio Terzi, in fondo a via Pignolo, verso via Camozzi. Veniva da noi una signora che faceva anche lei il mestiere più vecchio del mondo. La chiamavano la Lupa. Era alta, aveva un gran seno. Il viso era duro, maschile. E aveva gli occhi rigati in modo pesante con la matita nera, e tanto rossetto. Pensavo avesse un vocione. Invece si rivolgeva a noi con garbo, e aveva una voce che sembrava quella di una bambina. Quando la vedevo in giro mi faceva tenerezza».

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Lupi e tedeschi. La caserma segnava la vita della contrada. Ricorda Piero Rossi che al tempo abitava nel vicolo San Giovanni: «Mi ricordo bene durante la guerra, quando nelle due caserme, la Umberto I (dopo la guerra l’hanno chiamata Montelungo per via della battaglia del nuovo esercito regio che risaliva la Penisola con gli alleati) e la Colleoni, c’era la fanteria. Nella Umberto I si trovava il reggimento dei Lupi di Toscana. Io ero un bambino, ma potevo entrare in caserma perché mio padre era il cuoco della mensa sottufficiali. E mi ricordo bene che al centro del cortile c’era una grande gabbia e dentro c’erano tre lupi. Erano i Lupi di Toscana, simbolo del reggimento. Quando ci fu l’8 settembre, i nostri soldati scapparono, ricordo l’arrivo dei tedeschi che presero possesso della caserma. Erano infuriati. Ricordo che correvano sul marciapiede con le moto con i sidecar e la gente scappava nei portoni... Ma non erano tutti cattivi. C’era un soldato tedesco che mi dava del pane. Una volta me lo buttò giù dalla finestra che dava sul vicolo San Giovanni. Ero con il mio amico Zanoli, avevamo dieci anni. La pagnotta era dura e pesante e la presi in testa, caddi tramortito. Ma mi rialzai...».

 

Gori all'inizio dei lavori di demolizione dell'ex caserma Montelungo.

 

La festa della Vittoria. Più di recente, la caserma diventava il cuore di tutta la città il 4 novembre, festa della Vittoria, poi festa delle forze armate. Per l’occasione si poteva valicare il misterioso portone e trovarsi davanti ai mezzi corazzati anfibi che sapevano di grasso di macchina, all’elicottero militare arrivato apposta per la festa. E qualche volta c’era pure un carro armato. I bambini potevano arrampicarsi sui cingoli senza che nessuno si lamentasse.

Il futuro. Tutto questo finisce nei ricordi, negli archivi in maniera definitiva. Basta fucili e cannoni. La Montelungo diventa luogo dell’università progettato dallo studio Barozzi-Veiga di Barcellona. Dentro l'ex caserma gli alloggi per gli studenti universitari, giardini su più livelli, spazi dedicati al commercio. Tutto collegato con il Parco Suardi da una parte, il parco Marenzi dall’altra. E il parco Suardi a sua volta che sfocia nell’area della Gamec e dell’Accademia Carrara. Viene in mente il vecchio piano regolatore Astengo, approvato nel lontano 1968. Anche quel piano regolatore vedeva la Montelungo trasformata in luogo aperto alla città, in un giardino.

 

 

Il passato da convento. In realtà, quello spazio non fu sempre caserma. Cominciò a dare del tu alla guerra soltanto dal 1816, con gli austriaci. Prima era un convento e un luogo per orfanelle e per donne in difficoltà, «Peccatrici e penitenti, vedove maritate e giovinette». Si sa che nel 1596 le ospiti erano quarantaquattro. Si trovava lì anche la chiesa dedicata a San Giovanni Battista. Forse per questo la via prese il nome che porta ancora oggi.

L’attuale volto della strada nacque all’inizio del Novecento, quando case e casupole sulla destra (guardando verso la caserma) vennero abbattute, la via allargata mentre, verso il 1920, fu eretto lo stabile che ancora oggi vediamo, quello che ospita anche il ristorante indiano Guru e, accanto, il negozio Rosaspina di computer e macchine per ufficio. Ma questa è un’altra storia.

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