Un articolo del New Yorker

Non abbiamo davvero bisogno di lavorare così tanto (troppo)

Non abbiamo davvero bisogno di lavorare così tanto (troppo)
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Nell’ultima settimana, negli Stati Uniti si è parlato molto di un articolo apparso sulle pagine del New York Times relativo alle condizioni di vita dei lavoratori ad Amazon (qui il riassunto de Il Post). Tim Wu, accademico americano, s’interroga sul senso del lavorare contemporaneo nella società americana – un’analisi che potrebbe essere estesa a tutto il mondo industrializzato. Lo ha fatto sulle pagine del New Yorker (a questo link l’articolo originale); riportiamo la traduzione.  

 

Di recente, il New York Times ha scritto in prima pagina delle condizioni dei lavoratori dal colletto bianco ad Amazon. [L’articolo] ha parlato di un posto in cui i licenziamenti bruschi sono comuni, uomini e donne adulti piangono sulle loro scrivanie, e le persone vengono rimproverate per non aver risposto alle email dopo mezzanotte. La storia ha chiarito quanto le cose siano cambiate nel mondo lavorativo americano. C’era una volta in cui si dava per scontato che le classi più abbienti si godessero una vita di svaghi sulle spalle del proletariato. Oggi è la gente che fa mansioni specializzate a potersi permettere di trovare un lavoro con orari ragionevoli e un buon salario; il professionista americano fa parte del gruppo di coloro che sono oggetto di umiliazione e viene guidato come fosse una bestia da soma.

Nessuno avrebbe pensato che le cose sarebbero andate in questo modo. Keynes [economista britannico, padre della macroeconomia, ndr] aveva previsto una giornata lavorativa di tre ore, e, nel 1964, il magazine Life dedicò una collana in due parti a ciò che al tempo si considerava una “minaccia reale” per la società americana: l’imminente epidemia del troppo tempo libero. In The Emptiness of Too Much Leisure [Il vuoto del troppo tempo libero, ndr], era scritto che «alcuni profeti al passo coi tempi affermano che, grazie a ciò che l’automazione sta facendo alla nostra economia, ci troviamo alla vigilia della settimana lavorativa da 30 ore». L’articolo  era intitolato: The Task Ahead: How to Take Life Easy [Il compito che ci attende: come prendere la vita facilmente, ndr].

 

 

Cinquant’anni dopo, è giusto dire che la preannunciata crisi da tempo libero non si è propriamente verificata. La settimana lavorativa in posti come uffici legali, banche e compagnie tecnologiche è in costante aumento, a livelli considerati intollerabili da molte persone. Infatti, nel 2006, le persone che costituivano la fascia del 20 percento dei lavoratori con i salari più elevati avevano, rispetto alle persone che costituivano la fascia del 20 percento con i salari più bassi, più del doppio delle probabilità di lavorare più di 50 ore a settimana; un rovesciamento storico delle condizioni lavorative.

Il perché questo accada è sia un mistero che un paradosso. Negli ultimi cinquant’anni si sono visti enormi guadagni in termini di produttività, l’invenzione di numerosi dispositivi salva-lavoro e l’ingresso di massa delle donne nel mondo del lavoro formale. Se assumiamo che ci sia, in una certa misura, un quantitativo di lavoro fisso necessario alla società per funzionare, come facciamo ad essere più produttivi, ad avere più lavoratori e, al tempo stesso, a lavorare per molte più ore? Ci dev’essere per forza qualcosa sotto.

La questione si è rivelata molto affascinante per economisti e scrittori, come Brigid Schulte, una reporter del Washington Post, che ha scritto una sua opinione personale sulla questione (e ha finito, in gran parte, per accusare il marito di non aver condiviso equamente l’onere di gestire la loro casa). Come ha scritto Elizabeth Kolbert [scrittrice di punta del New Yorker, ndr], ognuno è d’accordo relativamente al fatto che non esista una risposta semplice alla questione. Alcuni pensano che gli americani preferiscano semplicemente il lavoro al tempo libero; una forte etica del lavoro, in accordo con questa teoria, è diventata il distintivo d’onore per chiunque abbia una laurea. Se sei impegnato sembri uno importante. C’è anche il fattore orgoglio che le persone possono provare per il loro lavoro; c’è chi trova l’amore e ha accesso a cibo gratis, e va alle conferenze come fossero una forma di vacanza. Altri pensano che l’aumento delle ore lavorative sia in qualche modo legato all’ineguaglianza: man mano che le persone in cima alla scala sociale fanno più soldi, ogni ora di lavoro assume più valore. E c’è anche la teoria di quelli che dicono che i nostri desideri e bisogni crescono man mano che consumiamo sempre di più, producendo un bisogno maggiore di lavoro.

 

 

L’idea di fondo che queste spiegazioni condividono è che la risposta proviene dall’analisi delle decisioni e degli incentivi dei lavoratori. Qualcosa manca: la domanda che si pone è se il sistema americano, per sua natura, possa resistere alla possibilità del troppo tempo libero, anche se è ciò che le persone desiderano e cercano di realizzare. In altre parole, le tante ore potrebbero non essere il prodotto né di ciò che realmente vogliamo, né dell’oppressione dei lavoratori da parte della classe dirigente, la vecchia teoria marxista. Essere potrebbero essere il prodotto di sistemi e istituzioni che hanno assunto una vita propria e non servono gli interessi di nessun altro. Questo è ciò che succede quando una certa industria diventata un gigantesco progetto genera-lavoro che intrappola tutti al suo interno.

Ciò che conta come lavoro, nel settore dei mestieri specializzati, ha dei limiti intrinseci; una volta che una casa o un ponte sono stati costruiti, il lavoro finisce. Ma nei lavori dal colletto bianco, l’ammontare di lavoro si può espandere infinitamente attraverso la generazione di false necessità – cioè, necessità che guidano le persone il più possibile senza che abbiano niente a che fare con le reali esigenze sociali ed economiche. Si consideri il sistema del contenzioso, in cui le ore di lavoro degli avvocati presso i grandi studi legali generano spesso delle lamentele [le ore sono spesso pagate a peso d’oro dai clienti, ndr]. Se la risoluzione della controversia è la funzione sociale della legge, quello che abbiamo oggi è tutt’altro che il modo più efficiente per raggiungere risoluzioni eque e ragionevoli. Invece, il contenzioso moderno può essere inteso come un’enorme, socialmente inutile, corsa agli armamenti, in cui gli avvocati si sottopongono a vicenda ad un torturante ammontare di lavoro solamente perché possono. Nei vecchi tempi, i limiti della tecnologia e di una sorta di professionalità creavano un limite naturale a tali corse agli armamenti, ma oggi nessuna delle due parti vuol stare in piedi a guardare dal basso, al fine di evitare di mettersi in una situazione di svantaggio competitivo.

 

 

Un’analisi tipica accusa i partner degli studi legali di essere follemente avidi di ore, ma l’ironia è che le persone al vertice sono spesso infelici e oberate di lavoro, così come quelle in basso: è un sistema che non serve quasi nessuno. Inoltre, i nostri miglioramenti nelle tecnologie di produttività peggiorano il problema della corsa agli armamenti. Il fatto che i dipendenti siano sempre raggiungibili elimina quella che una volta era una sorta di barriera naturale, l'idea che il lavoro è qualcosa che succeda in un certo orario e in un ufficio fisico. Senza limiti, il lavoro diventa come una partita di calcio in cui non arriva mai il triplice fischio.

Il contenzioso può essere un esempio estremo, ma non c’è dubbio che molti altri settori abbiano le loro stesse corse agli armamenti che creano un lavoro di dubbia necessità. L'antidoto è semplice da prescrivere ma difficile da realizzare: si tratta di un ritorno all’efficienza che sia capace di appagare qualunque necessità abbiamo come società, con il minimo sforzo richiesto, lasciando comunque la possibilità di lavorare molto a coloro che amano quello che fanno come si ama un passatempo. A questo proposito, c’è non poca ironia nel fatto che Amazon sia un luogo di lavoro brutale quando il suo apparente principio guida è quello di rendere migliore la vita delle persone. Ci dev’essere un modo migliore.

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