L'intervista

Non è possibile morire legati in un ospedale come il nostro

Non è possibile morire legati in un ospedale come il nostro
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Pubblichiamo la lettera che ci ha inviato il dottor Marco Bertoli, psicologo e direttore del Dipartimento di Salute Mentale aas2 Bassa Friulana-Isontina e riguardante la tragedia della ragazza arsa viva nell'incendio scoppiato la scorsa settimana nella Torre 7 dell'ospedale Papa Giovanni. La 19enne non è riuscita a fuggire perché era stata legata al letto.

 

 

Una ragazza entra in un ospedale pubblico e muore, arsa viva. Naturalmente la causa dell’incendio è sua. Da sempre è così. C’è però un particolare: in ospedale si entra per curarsi e lei giaceva legata in un letto. Naturalmente la causa della contenzione è sua: era sicuramente aggressiva, violenta, manipolatrice. Da sempre è così. Nel 1974 l’ospedale psichiatrico giudiziario di Pozzuoli fu chiuso perché anche lì una donna arse viva. Ora tutti i ragionamenti, le inchieste, le indagini porteranno a giustificare, a spiegare, a mitigare. Ma una ragazza di vent’anni è morta. È morta perché ancora nei nostri ospedali e non solo, viene mantenuta la contenzione.

Dopo la morte di questa ragazza, ci si aspetta che la società civile, gli operatori sanitari, i politici si attivino perché vengano messe al bando per tutti le metodiche contenitive. Si legano le persone con problemi di salute mentale, i vecchi, i malati agitati negli ospedali, nelle case di riposo, negli istituti, nei pronto soccorso. Da legati non ci si può mettere in salvo, da legati si muore.

Una persona legata subisce un trauma psicologico che dura tutta la vita. Nella regione Friuli Venezia Giulia i sevizi psichiatrici hanno bandito da tempo la...

Articolo completo a pagina 4 di BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 29 agosto. In versione digitale, qui.

 

«I pazienti non vanno legati, mai!»
di Luigi de Martino

Abbiamo approfondito la tragica vicenda di Elena Casetto con Marco Bertoli, autore della lettera accanto e psichiatra responsabile del Dipartimento di Salute mentale dell’azienda sanitaria del basso Friuli.

Dottore, le sue sono parole forti: davvero era evitabile la morte della diciannovenne all’ospedale di Bergamo?

«Ci vogliono almeno due cose per intervenire in modo efficace su persone che hanno gravi problemi psichiatrici, anche nella fase acuta: il rispetto e un’organizzazione adeguata».

In che senso?

«Se una persona viene ricoverata in un ospedale vuol dire che ha bisogno di un’attenzione particolare, perché sta molto male. Ma essere legato o “contenuto”, come si dice in gergo, non esprime e non comunica mai una forma di attenzione e di cura, anzi: la rabbia del paziente aumenta. Non è la prima volta che un malato non riesce a fuggire da un pericolo, anche se è lui a provocarlo».

Cioè si può intervenire anche senza costringere il malato a letto?

«Nei servizi psichiatrici della regione Friuli-Venezia Giulia la contenzione è totalmente bandita da anni. Noi non ne facciamo uso, né nei centri di salute mentale né durante i ricoveri ospedalieri nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Se lo facciamo noi, lo possono fare tutti».

Ci può spiegare?

«Quando si accoglie una persona particolarmente aggressiva, la si circonda di tutte le attenzioni; si mette il paziente nella possibilità di scaricare questa sua rabbia, in modo che questa aggressività non diventi violenza, cercando al tempo stesso di capire perché sta così male. Quando uno viene legato, la sua aggressività aumenta, non diminuisce: essere legati è una cosa tremenda».

La ragazza era stata legata perché mezz’ora prima aveva tentato di impiccarsi.

«Questo non giustifica affatto la decisione di legarla. Di sicuro si trattava di una situazione molto impegnativa, ma non è che quando una persona decide di farla finita il rimedio è la contenzione. A maggior ragione, in questo momento di crisi assoluta, bisogna che il paziente avverta la vicinanza e la cura di medici e infermieri».

Vorrebbe dire che per ogni persona che sta male ce ne vogliono diverse che la assistono...

«Non è vero, dipende dai casi: le persone stanno male in maniera diversa e non si trovano tutte nella condizione acuta o drammaticamente sofferenti nello stesso momento. In quel frangente alla ragazza andava data un’attenzione del tutto particolare».

Lei come avrebbe agito in una circostanza simile?

«Come si agisce quando c’è una persona che cerca di farla finita: si sta insieme, in fondo al letto, finché non si è calmata, e si usano anche i farmaci, la sedazione. Non sto dicendo che si possa risolvere la situazione acuta solo con la parola. Tantissime persone che noi curiamo hanno tentato il suicidio o hanno idee suicide, ma non per questo le leghiamo al...

 

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