Per favore, non chiamatelo Cre (meno che a Nembro). Le regole sono veramente troppe...
Il Coronavirus ha portato a galla una questione di fondo: è ancora necessario che il parroco faccia il Centro ricreativo estivo? Servono tanti volontari adulti ed è troppa la responsabilità sulla sicurezza
di Bruno Silini
Per favore, non chiamatelo Cre. Ormai parola proibita in Diocesi. Subentrano altre terminologie, avanguardie lessicali, circonlocuzioni creative per dire quello che non si può dire e non si può fare. Perché diciamolo chiaramente: il Cre quello vero, fatto di sfide sotto il sole, di gavettoni, di gite in montagna e tuffi in piscina, di spettacoli teatrali, di balli e cacce al tesoro... quest’anno, patrocinato dal virus, non sarà possibile. E tanti parroci non ci stanno a trasformare quattro settimane di socialità organizzata in “un lager” pieno di costrizioni, vincoli, attenzioni e timori che qualcosa sfugga al controllo di quanto imposto dalle normative anti-Covid.
«No, così non è un Cre - precisa don Pierangelo Redondi, parroco di Sedrina -. Perde di senso, non è il nostro Cre. C’è in gioco troppa responsabilità per i miei parrocchiani adulti attorno a questioni di sicurezza. Così si è deciso di non fare nulla». Tanti parroci seguiranno il suo esempio. Al di là delle rigide regole di un’estate a gruppetti di una decina di persone al massimo, distanziate, non comunicanti, preferibilmente in spazi aperti, con ingressi e uscite da pronto soccorso, i parroci non ne vogliono sapere di trasformare un’opportunità educativa che in Bergamasca ha fatto scuola in un servizio di babysitteraggio. «Per queste cose - continua don Redondi - ci sono i Comuni. Loro fanno presto. Chiamano la cooperativa e risolvono».
I problemi da affrontare non sono pochi e le norme non sono di facile interpretazione. Le parrocchie che tradizionalmente organizzavano il Cre nelle quattro settimane di luglio sono ancora in fase decisionale, in bilico tra un “sì, lo facciamo” e un “no, restiamo chiusi”. Il punto più dolente è il volontariato di maggiorenni che deve assistere i minori. Una parrocchia, per esempio, con 160 ragazzi al Cre (120 bambini e 40 preadolescenti) dovrebbe disporre almeno di una ventina di animatori adulti ai quali affidare i gruppetti di ragazzi. Non tutte le parrocchie possono vantare una rete di collaboratori così ampia - a gratis - che possa garantire una presenza ininterrotta per un mese consecutivo dove il dovere di un’attenta supervisione è un macigno non alleggerito da nessuna prospettiva di svago. Un conto è badare a dieci ragazzi mentre si sta a mollo in piscina o si segue una mulattiera verso un pic-nic in vetta; un altro è stare tutto il giorno in uno spazio autonomo e ristretto a inventarsi come spendere il tempo.
Poi c’è la questione della igienizzazione. Le regole dicono che è necessario pulire i bagni ogniqualvolta un bambino fa pipì. «Significa - ammette un prete di montagna - avere, come durante la naia, un piantone che spazzola il cesso ad ogni utilizzo. E poi la sanificazione degli ambienti e del materiale. Il primo aspetto potrebbe essere risolto da un gruppo di mamme volenterose che passa di fino gli ambienti dell’oratorio. Ma se faccio un’attività con i pennarelli, quei pennarelli vanno poi sanificati. Dunque, il primo problema è la gran mole di volontariato che occorre recuperare che si declina in un impegno economico (non alla portata di tutte le parrocchie) se si vogliono condurre le attività bene, seriamente e rispettando le leggi». E per le unità pastorali di montagna, dove il Cre è concentrato nella comunità maggiore, occorre pensare al trasporto dei ragazzi delle comunità minori (andata e ritorno). Se negli anni scorsi un pulmino da nove posti garantiva effettivamente nove posti, adesso (per la regola del distanziamento) le corse raddoppiano e con esse le spese. Un comune denominatore emerge per i parroci: «Se si fa il Cre, l’utenza che potremo accogliere sarà meno di un terzo di quella ordinaria. La maggior parte dei ragazzi, purtroppo, dovrà trovare altre soluzioni».
Decisamente più fortunato di altri è don Matteo Cella, vicario parrocchiale a Nembro. (...)