Perché tra un po' a Bergamo le caldarroste costeranno di più
È ormai sotto gli occhi di tutti. La cornice verde delle nostre montagne è sempre più contraddistinta in questo periodo da vaste macchie grigie. Si tratta di alberi secchi, di castagni morti. Da cinque anni siamo costretti a registrare un drastico crollo della presenza di questo albero nelle nostre valli. Le cause sono principalmente due: il cancro del castagno, patologia nota dagli anni Settanta ma che ha avuto una brusca accelerata negli ultimi tempi, e il cinipide del castagno, un insetto originario della Cinache impedisce la formazione delle foglie e la maturazione dei ricci. Se gli appassionati di castagne sono costretti a prendere atto di questa tendenza negativa, bisogna però sottolineare che in fin dei conti la natura sta semplicemente riprendendosi ciò che era suo.
Il castagno non esisteva a Bergamo. Bisogna ricordare infatti che nell’antichità le Orobie erano ricoperte solamente da roveri, querce, carpini, frassini, betulle. Furono i romani, una volta colonizzata l’area padana, a introdurre il castagno in tutto l’arco alpino (è presente dai 300 agli 800 metri) dopo averlo importato dal Medio Oriente. Perché?
Perché da allora fino al secondo dopoguerra, il frutto di castagno ha rappresentato una base alimentare per le popolazioni delle valli, le quali non potevano disporre facilmente di frumento (non arriva oltre i 500 metri) e ovviamente fino alla scoperta dell’America non avevano a disposizione il mais. Erano le castagne che costituivano la base alimentare: venivano seccate al sole e poi triturate per produrre la farina di castagnaccio con cui si cucinava una sorta di polenta.
Da qui l’enorme diffusione del castagno da frutto su tutto l’orizzonte montano della Lombardia e di Bergamo in particolare. Celebri i biligòcc di Vall’Alta di Albino, che rappresentano una interessante e particolare forma di conservazione delle castagne: venivano affumicate per essere conservate fino a primavera inoltrata. Le popolazioni avevano così a disposizione una riserva di carboidrati per l’intero arco invernale.
L’inizio della scomparsa. Con il boom economico, il castagno cessa di avere una rilevanza economica nelle nostre valli. Diventa soltanto una sorta di leccornia stagionale, o addirittura viene utilizzato per produrre pale per lavori agricoli. Mentre prima veniva coltivato con ogni cura per aumentarne la resa sia in termini quantitativi che qualitativi, ora cresce abbandonato a se stesso, si inselvatichisce. Il castagneto da frutto diventa bosco ceduo di castagno, periodicamente tagliato e poi fatto ricrescere spontaneamente per ricavare legname.
Quello che un tempo era l’albero più diffuso nelle nostre valli subisce quindi oggi l’avanzata del bosco di latifoglie originario. Ne guadagnano la biodiversità e il paesaggio, che offrendo una maggiore alternanza può risultare più gradevole.
La fauna del castagno. I piccoli roditori, come il ghiro e lo scoiattolo, hanno beneficiato enormemente della diffusione del castagno, data l’abbondante disponibilità alimentare e le possibilità di rifugio. Ovviamente il drastico crollo della presenza del castagno provoca una pesante riduzione di questi animali e ha delle ripercussioni anche sul cinghiale, che pur essendo onnivoro accusa nel periodo autunnale e invernale una minore fecondità, dato il minor cibo a disposizione.
Il futuro. Il castagno non si riprenderà tanto facilmente da questa situazione, salvo pochi e ben organizzati castagneti da frutto che hanno aperto una lotta biologica contro il cinipide, mentre ormai è chiaro che le foreste di un tempo non verranno ricostituite. Godiamoci dunque la caldarroste di stagione, forse fra qualche anno non saranno più a buon mercato.