La diciamo tutta: non gli crediamo

Perché gli zingari e non solo i Rom non li sopporta nessuno (io sì)

Perché gli zingari e non solo i Rom non li sopporta nessuno (io sì)
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Precisiamo. Se qualcuno crede che in Italia siano in tanti a conoscere il marchese Folco De Baroncelli-Javon, può smettere di leggere. Una decisione che possono prendere anche coloro che pensano che - sempre in Italia - siano in molti a saper istituire a mente fredda una relazione fra la data del 24-25 maggio, il terzo week-end di ottobre e gli zingari. Zingari e non Rom, perché non tutti gli zingari sono Rom. Il politicamente corretto, tante volte, è etnicamente scorretto. Dato che chi scrive ritiene di essere fra i pochi che sanno tanto chi sia Baroncelli (l’amico per eccellenza degli zingari), quanto a cosa corrispondano quelle date (ai grandi pellegrinaggi annuali dei Gitani alle Saintes-Maries-de-la Mer, in Camargue), allora - anche se qualcuno smettesse di leggere - lui andrebbe avanti a scrivere. Perché anche lui, come il grande “inventore” della Camargue, è amico dei Sinti, dei Rom, dei Gitani, degli Tzigani, dei Gipsy, insomma dei romaní, come si dovrebbe chiamarli per prenderli dentro tutti. Chi scrive, alle Saintes-Maries ci va tutte le volte che può, e non solo per Van Gogh. E gli piace perfino Gambolò, l’ameno paese nei pressi di Vigevano del quale sono cittadini molti rom italiani.

 

 

A lui, a chi scrive, gli zingari ricordano una sera di settembre di tanti anni fa, quando al mare non c’era più nessuno e le notte scendeva presto, in cui sentì bussare alla porta e si trovò davanti un bambino della sua età con addosso delle trecce di agli e cipolle che voleva vendere. La donna di servizio (allora si chiamavano così le domestiche) andò subito a prendere delle monete e gliele mise in mano perché - disse - altrimenti quando torna a casa lo picchiano. Se non porta dei soldi gli danno un sacco di botte. Era la stessa domestica che come vedeva un pipistrello correva a mettersi uno straccio sulla testa, convinta che le povere bestiole si aggrappassero ai capelli - credenza falsissima. Ma al momento l’idea di un bambino come me picchiato mi si inchiodò in testa e da allora in poi non riesco a vedere (o neanche a immaginare) uno zingarello senza una contrazione dolorosa. Non pensò - il bambino con la domestica - che i grandi che pestano uno piccolo dovessero essere gente poco raccomandabile. Fu invaso dalla sofferenza del coetaneo.

Poi ci fu un viaggio in Germania, l’incontro con l’espressionismo tedesco, con la pittura di Otto Müller e coi suoi Zigeunere, ossia gli zingari - singoli o accoppiati, innamorati o meno che fossero. E anche in quel caso la storia degli zingari che portavano via i bambini si ritrasse verso il fondo della memoria per lasciare spazio ad immagini più luminose e malinconiche.

 

 

Ma agli altri, perché sono così antipatici questi personaggi strutturalmente sudici e vaganti, i strolegh (gli astrologi, perché leggono la mano) come li chiamano in certe zone della Lombardia? Perché fanno di tutto per esserlo, intenzionalmente, culturalmente, come in certi paesi in cui un uomo deve fare attenzione a non apparire troppo pulito, deve mantenersi le unghie non troppo curate per non essere accusato di scarsa virilità. I romaní non vogliono essere diversi da come sono né diventare amici di chi non sia romaní. Punto.

Nei primi tempi del tg La7, Mentana mandò in onda un servizio da una cittadina della Romania dalla quale provenivano gli zingari che il marito di Carla Bruni - l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy - voleva rimandare a casa pagando loro anche il viaggio. La telecamera indugiò a lungo su strade in terra battuta che parevano gli spiazzi fangosi antistanti i porcili in cui grufolavano un tempo i maiali; entrò in edifici fatiscenti nudi di ogni più elementare suppellettile, i muri sbrecciati, i rifiuti depositati ovunque. L’intento del direttore era quello di indurre l’idea che da un posto simile si poteva solo fuggire. Ma anche ai più costanti e fedeli amici dei fuggiaschi sorse la domanda: sì, ma chi lo ha ridotto così, quel posto? Visto che c’erano, perché non si son dati da fare per rendere meno indecente il loro luogo di residenza? Perché sono così - è la risposta. Non fanno niente per rendere migliore di come l’hanno trovato il posto in cui transitano. I nomadi mongoli e kazaki, quando si spostano con le loro yurte e i loro animali, lasciano il terreno in condizioni tali che dopo un paio di settimane l’erba nuova cancella ogni traccia del loro passaggio e il verde torna a risplendere smeraldino. I nostri nomadi (che poi non sono nemmeno tutti nomadi) non si comportano allo stesso modo. I rifiuti li lasciano agli altri, anche quando basterebbe fare due passi per arrivare al cassonetto più vicino.

Andate, in ottobre o l’anno prossimo, alle Saintes-Maries. Vicino alle roulottes messe disordinatamente in fila sentirete un odore caratteristico di roba cotta sul fuoco. Di roba cotta male, però, bruciacchiata. Uno dice: sono secoli che si spostano, che usano quello che noi chiamiamo barbecue: saranno dei virtuosi della carne alla brace. No, non lo sono. Non gliene importa nulla di mangiare bene. Non si affinano. Chissà cosa immaginano di perderci da una bistecca fatta come Dio comanda. Perché in quel caso non c’è Salvini che tenga: sarebbero perfettamente liberi di farsi un piatto commestibile, se non addirittura gradevole. Non lo fanno. Come gli indios andini che cuociono il pane spiaccicando la pasta sul bordo delle pentole così che fuori si brucia e dentro rimane crudo. Una cosa immangiabile. Uno gli fa vedere come potrebbero, con pochissima attenzione, cuocerlo meglio: loro sorridono e riprendono come prima.

La roba, gli oggetti: lo stesso. Li scassano con impareggiabile maestria. Dà loro un passeggino per bambini e dopo qualche giorno è rotto, è sporco, da buttar via. Ma non lo buttano nemmeno via. Lo lasciano lì. Ci penserà il vento a finir l’opera. Quando trovi le donne che lavano i vestiti a qualche fontana (anche a chi scrive piaceva spostarsi come uno zingaro, ai suoi bei tempi), succede la stessa cosa: non ci mettono alcuna cura nell’insaponare o nel risciacquare. Come viene viene.

 

 

C’è un bel libro di a cura di Ezio Marcolungo e Mirella Carpati sugli zingari. Carpati è una specie di divinità tutelare di questo popolo. Don Bruno Nicolini, il prete dei nomadi come è stato chiamato, li ha curati e vezzeggiati, li ha fatti incontrare col papa Giovanni Paolo II, ha voluto per loro una chiesa: si è dato da fare insomma, con un cuore grande così. Ma per quanto uno si impegni nel mostrare l’infondatezza dei nostri pregiudizi, il vivere quotidiano degli zingari (il loro lasciare roba sparsa per le città, l’andar cantilenando nelle metropolitane storie inverosimili e sempre uguali, lo sguardo stesso che si mantiene a distanza, i furti nelle abitazioni e nei cantieri, le loro Mercedes che sembrano sempre sul punto di sfasciarsi, i bambini moccicosi e altre bagattelle) la loro quotidianità, dicevamo, non riesce comunque a renderceli istintivamente friendly, amichevoli. La loro è una forma di socialità che ci rimane ultimamente incomprensibile anche quando riusciamo a stabilire un contatto temporaneamente positivo. La diciamo tutta: non gli crediamo. Pensiamo sempre che facciano solo finta di esserci amici.

Il marchese Baroncelli istituì per loro la festa delle Saintes-Maries. E loro furono contenti di poter fare la processione, di mettere le statue sulla barca, di credere (o far finta di credere) che quelle sante fossero variamente connesse con la Madonna e con altre marie evangeliche. Ma poi, com’erano arrivati, se ne partivano anche. Senza aver lasciato niente, salvo il fumo dei ceri che annera le pareti della chiesa-fortezza, al luogo che li ospita. Forse è proprio questo sistematico niente che danno in cambio, questo niente che non danno nemmeno a se stessi per più di qualche tempo, unito alla pretesa insistente che siano gli altri a dar loro qualcosa, a renderli così estranei al nostro modo di pensare.

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