Investiti in BTp

Perché i soldi Bce per le imprese sono finiti nelle tasche delle banche

Perché i soldi Bce per le imprese sono finiti nelle tasche delle banche
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È di ben 18,4 miliardi di euro il totale degli investimenti che la banche italiane hanno operato, nel solo mese di ottobre, in termini di acquisti di BTp (buoni del tesoro poliennali), portando il valore complessivo dei cespiti governativi alla cifra record di 414,3 miliardi di euro.

Era denaro destinato alle imprese. L’aspetto interessante, però, riguarda la provenienza di tutto questo denaro investito: gli oltre 18 miliardi infatti rappresentato una più che cospicua parte di quei 26 miliardi di euro che gli istituti italiani hanno preso in prestito dalla Bce nell’asta Tltro dello scorso settembre. La Tltro (Targeted long term refinincing operation) è una particolare procedura con la quale vengono erogati prestiti quadriennali alle banche dell’eurozona, con l’obbligo da parte degli istituti beneficiari di utilizzare la liquidità ottenuta per sostenere il credito all’economia reale, attraverso, in particolare, aiuti alle imprese. Ma gli istituti nostrani non si sono attenuti alle direttive europee, e, invece che immettere questo denaro nel mondo imprenditoriale, hanno acquistato una gran quantità di BTp, andando a sostenere il debito pubblico italiano.

Le ragioni di questa scelta. Di primo acchito, la mossa delle banche italiane appare come una scelta egoistica: gli investimenti in BTp, conseguenti ai prestiti dalla Bce, permettono di attuare una dinamica definita di “carry trade”, ovvero una pratica speculativa consistente nel prendere in prestito denaro con bassi tassi di interesse (quali quelli attuati dalla Bce) e convertirlo in investimenti che garantiscono un rendimento maggiore rispetto alle spese relative ai suddetti tassi, in modo da ottenere un guadagno anche al netto degli interessi da ripagare.

E non è un caso che, durante gli anni più duri della crisi economica, le banche italiane si siano particolarmente concentrate in questo tipo di operazioni, così da mantenere una garanzia di liquidità sufficiente ad evitare il tracollo: negli ultimi tre anni, infatti, le quote di BTp nelle mani degli istituti di credito sono più che raddoppiate, rappresentando il 10,8 percento del patrimonio complessivo, contro, ad esempio, il 9,5 delle banche spagnole, il 3,3 di quelle tedesche, e il 4,5 della media europea.

Dunque, il “tradimento” da parte degli istituti bancari italiani appare duplice: nei confronti del sistema europeo, che - come detto - aveva espressamente indicato la destinazione dei presiti nel credito alle imprese, e nei confronti di queste ultime, defraudate dei due terzi di quanto sarebbe loro spettato (i restanti 8 miliardi infatti sono stati effettivamente girati nell’economia reale). Ma al fondo, in realtà, non è del tutto vero.

Il lato positivo. In un periodo in cui la liquidità bancaria scarseggia assai, ed è quindi molto difficile per gli istituti erogare prestiti alle imprese (le quali, d’altro canto, mai come ora necessitano di sostegno finanziario), sfruttare il denaro proveniente dall’Unione Europea per dare maggior linfa alle banche stesse può rivelarsi una mossa saggia, poiché, entro un determinato periodo, queste avranno la possibilità di ricollocarsi al fianco delle imprese da un punto di vista del credito, cosa che, vista le maggior territorialità e vicinanza alle aziende dei singoli istituti rispetto alla Bce, potrà sicuramente portare giovamenti all’intero sistema, sia quello imprenditoriale (soldi disponibili) che bancario (maggior tranquillità).

Né inoltre possono essere trascurati i risultati degli stress test cui l’UE ha sottoposto un campione di banche europee circa un mese fa: i dati, per molti istituti di credito italiani, erano stati particolarmente deludenti (soprattutto per Monte dei Paschi di Siena, Banca Carige, Banca Popolare di Sondrio; ne avevamo parlato qui) e l’utilizzo del prestito della Bce per riordinare i conti e tentare di dare prospettive più serene non è, a tal proposito, un intento da stigmatizzare.

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