Perché si piange di gioia?

Sono le lacrime che si versano alle lauree, ai matrimoni e ai battesimi, quelle che spuntano non perché si è tristi, ma perché si è così gioiosi da non riuscire a trattenere la propria emozione. Si impara quando si è piccoli, che esistono i pianti di gioia, quando per la prima volta vediamo mamma e papà piangere e ridere, insieme, e non ci si capisce più niente, non sappiamo se la situazione è seria o no. Poi ci spiegano che è la contentezza, a farli piangere così. Strani forte, gli adulti, pensano i bambini, almeno fino a quando arriva il loro turno, di lacrimare copiosamente davanti a altri bebé che pronunciano la loro prima parola e muovono i primi passi.
La chiamano espressione dimorfa. Al pianto per gioia corrisponde addirittura un emoticon, che alcuni giorni fa la Oxford Dictionaries ha eletto parola dell’anno 2015. Che poi la “parola” sia un emoji, lascerebbe spazio a ulteriori disquisizioni sul concetto di linguaggio (digitale), ma non è questo ciò di cui si parla qui. Il faccino che ride e piange contemporaneamente rappresenta in modo semplice e efficace uno stato d’animo piuttosto complicato. C’entrerebbero ragioni evolutive, nel processo che ci porta a unire due manifestazioni emotive apparentemente opposte. In psicologia la chiamano “espressione dimorfa”, proprio perché unisce due espressioni (forme) diverse in una sola.
Il pianto secondo la fisiologia. In generale, le lacrime servono per comunicare a chi ci sta vicino che siamo sotto l’influsso di una emozione molto forte. Il pianto serve da meccanismo catartico, ci libera cioè dal sovraccarico di sentimenti e ci tranquillizza, riportando la normalità. Il meccanismo che presiede a espressioni di questo tipo è, in primo luogo, fisiologico. Quando si prova un’emozione tanto forte da essere quasi insostenibile, sia essa positiva o negativa, il sistema limbico del cervello stimola il sistema nervoso centrale, il quale a sua volta aumenta il battito cardiaco, altera il ritmo della respirazione e fa secernere lacrime alle ghiandole lacrimali, poste sopra l’arco superiore dell’occhio.
E secondo la psicologia. Piangere di contentezza coinvolge anche dinamiche psicologiche, che in generale confermano la funzione equilibratrice delle lacrime. Se n’è occupata, in modo particolare, la psicologa Oriana Aragon, dell’università di Yale, la quale ha pubblicato su Psychological Science uno studio dedicato a questo argomento. Aragon ha esaminato le risposte emotive di un gruppo di persone poste di fronte a differenti scenari. Ha notato che chi ha reazioni negative di fronte a contesti positivi è in grado di controllare più velocemente emozioni intense, mentre chi piange facilmente quando i propri figli si diplomano è anche più incline a coccolare i bambini. Chi tende a piangere quando è molto felice, invece, ha l’abitudine di ridacchiare durante una discussione ben poco divertente, per sdrammatizzare. In sostanza, reagiscono in modo completamente opposto al sentimento che si sta provando in un determinato momento, per alleviare la tensione. Proprio come succede quando l’eccessiva felicità ci muove al pianto.
Il pianto ci fa bene. La psicologa ha scritto nel suo studio: «Vincere alla lotteria può essere apprezzato come un evento incredibilmente buono; ci si sente sopraffatti dalla felicità, si sorride e piange. L’apprezzamento della vincita come una bella esperienza, lo stato di contentezza e la relativa espressione verbale, possono essere facilmente descritte come condizioni positive, ma c’è anche un’espressione di pianto che normalmente è associata alla tristezza. Questa reazione, però, non è inerente alla situazione contingente», è uno “scarico” emotivo. In ogni caso, che sia per sofferenza o per felicità, è chiaro che piangere ci fa bene: pulisce gli occhi, li umidifica e ci riporta un po’ di tranquillità quando i sentimenti minacciano di farci perdere il controllo di noi stessi.