Perché siamo d'accordo col pm nel non lasciare il figlio a Martina

Il giorno di Ferragosto Martina Levato - condannata a 14 anni di reclusione, altri tre di libertà vigilata e oltre un milione di risarcimento all’ex ragazzo sfigurato con l’acido - ha dato alla luce un figlio, Achille, alla clinica Mangiagalli di Milano. Il bambino le è stato in un primo tempo sottratto, poi restituito per un’ora al giorno (la visita dovrà essere “di durata contenuta”) con la presenza obbligatoria di operatori sanitari e senza possibilità di allattamento diretto al seno. Nel contempo è stata aperto, su richiesta del pm dei minori Annamaria Fiorillo, il procedimento di adottabilità del minore, nel merito del quale si dovrà intervenire successivamente, dopo un periodo di istruttoria. Fino a quel momento il piccolo risulterà affidato al Comune di Milano, nominato suo tutore.
Adesso Stefano De Cesare e Laura Cossar, avvocati della Levato, hanno comunicato di aver individuato un centro dove la madre potrebbe continuare a vedere il piccolo. Si tratterebbe di una delle quaranta strutture gestite dalla fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, che ha già dato la sua disponibilità: «Noi siamo pronti: Martina deve stare con il bimbo, deve allattarlo. È l'unica via per salvare la mamma e il bambino». In alternativa i legali hanno indicato l'Icam, l’Istituto a Custodia Attenuata per le Detenute Madri di via Melloni a Milano.
Don Mazzi si era detto favorevole ad accogliere la donna già da giorni, per evitare al piccolo Achille il trauma del distacco dalla madre. Aveva scritto sul sito di Famiglia Cristiana: «Credo che il giudice abbia preferito lavarsi le mani e applicare le normali procedure. La ragione e l'opinione pubblica, di sicuro, sta tutta dalla sua parte. La madre ha fatto cose terribili e, umanamente parlando, nessuno si fiderebbe di lasciare in mano a mamma Martina un neonato. Io insisto ancora una volta nel chiedere che Martina tenga il frutto dei suoi nove mesi». Non si capisce da dove don Mazzi derivi la sua sicurezza nel pensare tutto questo male del giudice, dell’opinione pubblica e della ragione umana, però la sua offerta pare ragionevole. E così la proposta dei legali della Levato è stata comunicata alla Procura e al tribunale dei Minori di Milano. In attesa della risposta il Comune avrebbe inoltrato una “richiesta informale” alla Direzione della Mangiagalli perché trattenga ancora qualche giorno puerpera e neonato, nonostante siano stati entrambi dichiarati clinicamente dimissibili.
Come comprensibile, nella definizione della vicenda entrano anche le istanze del padre di Achille, Alexander Boettcher, anche lui condannato a 14 anni e deciso a riconoscerlo. Trovandosi detenuto, il Boettcher non poteva presentarsi all'anagrafe per il riconoscimento formale. Per questo il pm Marcello Musso ha telefonato al sindaco Pisapia facente funzione di tutore per accordarsi su una procedura rispettosa del dettato di legge e nello stesso tempo adatta al caso. Il sindaco ha deciso di inviare due messi comunali al carcere di San Vittore e il problema è stato risolto. Non è stato invece dato seguito al desiderio del padre di vedere il figlio anche solo per pochi momenti: la richiesta avanzata in questo senso è stata per il momento rigettata dal tribunale. Il pm Musso si è infatti espresso nel senso di “non luogo a provvedere". Vuol dire: ci penseremo più in là. Una cosa è la mamma, un’altra il padre.
Per il secondo non ci sono speranze, per la prima esistono invece due leggi che regolamentano il rapporto con un figlio piccolo: la prima è quella del marzo 2011, che stabilisce che le detenute possano restare accanto a figli in tenera età solo se la condanna è inferiore a quattro anni di reclusione (mentre quelli della Levato sono 14). Per reati più gravi è previsto che la madre detenuta possa espiare almeno un terzo della pena (4 anni, nel nostro caso) o almeno 15 anni – nel caso di “fine pena: mai” - in istituti di custodia attenuata, come sarebbero l’Icam e la comunità di don Mazzi.
La seconda legge in vigore dal primo gennaio 2014, “prevede che le mamme incinte o con bambini fino a sei anni, se imputate, non possano essere sottoposte a custodia cautelare in carcere”. Qui però non si tratta di custodia cautelare. Le condannate possono tuttavia scontare il solito terzo della pena ai domiciliari o in istituti di cura, fatta eccezione per particolari delitti. Come questo dell’acido, che non è gravissimo, però si porta appresso un’aura di ferocia - e per certi versi di follia - che non gioca a favore di chi lo ha commesso, perché fa pensare a possibili recidive. E i due, la Levato e il Boettcher, ci avevano fatto una specie di abitudine al lancio dell’acido. Purtroppo per loro il rischio di recidiva è appunto uno dei casi in cui la detenzione in carcere sembra la sola strada percorribile dalla legge. Tanto più che i giudici hanno già più volte rigettato l’istanza con cui il legale della Lovato Daniele Barelli chiedeva per la sua assistita gli arresti domiciliari, motivando la decisione con la mancanza di «alcun ravvedimento» nella condannata.
Nella rubrica su Famiglia Cristiana don Mazzi aveva scritto: «Non credo nella cattiveria, non credo nell'impossibilità di una nuova vita per ambedue i genitori. Io ho visto miracoli e cambiamenti straordinari soprattutto in questi casi. Dimentichiamo e sottovalutiamo troppo spesso l'importanza delle emozioni, della potenza positiva che scatena l'innocenza, soprattutto in coloro che hanno sbagliato. Il procuratore ha dichiarato che in Martina c'è una irreversibile incapacità di svolgere funzioni genitoriali. Io dico il contrario. L'unico modo perché Martina possa scontare i suoi sbagli sarà la cura, la pazienza, l'amore, la tenerezza e la sofferenza che questa creatura scatenerà dentro al cuore di colei che tanti credono abbia perso il cuore, ma anche la testa, la dignità, la femminilità. La giustizia penale non ha mai sostituito o aggiustato un amore».
Don Mazzi fa malissimo a non credere nella cattiveria. Speriamo che battezzando qualcuno non salti a piè pari la faccenda di Satana, perché sarebbe gravissimo. Se però il procuratore ha dichiarato che «in Martina c'è una irreversibile incapacità di svolgere funzioni genitoriali» deve aver avuto dalla sua qualche ragione: non avrà magari consultato un prete, ma è difficile pensare che si sia pronunciato a caso. È vero che «La giustizia penale non ha mai sostituito o aggiustato un amore», ma tante volte ha almeno tutelato degli innocenti dal ricevere danni più gravi di quello, già grave di per sé, costituito dal fatto di trovarsi al mondo. Sinceramente non daremmo un bambino in mano a Martina, e non perché ci siamo fatti tutti abbindolare dalla stampa: una che architetta uno, due, tre lanci di acido in faccia alla gente richiede di essere maneggiata con cautela. E dunque, almeno per il momento, agiremmo come il pm: saremmo per un «non luogo a provvedere», ossia a provvedere nel senso che lei, la mamma, sta da una parte - comoda, curata, voluta bene - ma il bambino da un’altra. E il padre da un’altra ancora.
E non pensi che siamo cattivi noi chi dice di non credere alla cattiveria.