Togliere Whatsapp a quei genitori! (per il bene della scuola e dei figli)

Il nome è sempre molto semplice. «Quelli della terza B», «Genitori della quinta A», «Bambini di Prima F». L’effetto invece è spesso assai più ingarbugliato: i gruppi di classe che comunicano su Whatsapp sono una novità che è entrata in mille e mille scuole con i più amichevoli intenti e che sempre più spesso diventa detonatore di imprevedibili conflitti. Ormai è quasi un rito: un genitore ad inizio anno prende l’iniziativa, raccoglie i cellulari dei genitori dei compagni del proprio figlio o figlia e dà il via alle danze. All’inizio le comunicazioni sono sempre molto light. Si cercano informazioni pratiche, si chiedono delucidazioni sui compiti a casa.
Il problema scatta nel momento in cui qualche genitore inizia a voler raccogliere informazioni su quel che accade in classe, in genere per difendere (improvvidamente) il proprio figlio. Così d’improvviso Whatsapp si trasforma in uno strumento di delazione, per raccogliere prove che inchiodino il tal professore, o per costruire alleanze su battaglie del tutto pretestuose. Whatsapp è uno strumento incendiario, perché per sua natura ingigantisce i casi e crea sempre effetti a cascata, che quando planano nella realtà sono dei veri cicloni difficili da controllare. Per questo, in questo inizio d’anno, molti dirigenti scolastici hanno voluto mettere le mani avanti e convincere i genitori a ricorrere alle vecchie e tradizionali comunicazioni. Innanzitutto è stato proibito agli insegnanti di inserirsi nei gruppi. Ed è stato ribadito che le comunicazioni tra scuola e famiglia funzionano solo sui canali tradizionali: avvisi o note sul diario, incontri one to one con i professori e poi assemblee di classe.
Infatti, lo strumento che sembrava un facilitatore si è trasformato in guastatore. E le cronache si riempiono di casi di presidi che devono intervenire delle tempeste esplose nel bicchier d’acqua della rete di messaggistica più usata. È accaduto a Mario Uboldi, dirigente del Giovanni Pascoli di Milano, che dopo aver sedato conflitti nati dal nulla, ha emesso una circolare che proibisce agli insegnanti di entrare, anche se per moderare, in questi gruppi.
Ma cosa accade dentro un gruppo whatsapp di mamme? Lo ha raccontato anche con una punta di ironia Alfredo, marito e padre: «Il lavoro dell’insegnante diventa approssimativo, si scava nella sua vita privata alla ricerca di chissà quale aspetto oscuro che ne pregiudica l’impegno, si inizia a pensare ad una disastrosa carriera scolastica futura dei propri figli, causata da questo incolmabile ritardo di preparazione. Il gruppo mamme sa essere inflessibile come un tribunale iracheno dei tempi andati».
Altra testimonianza dei terremoti da nulla provocati da Whatsapp è quella resa da un’insegnante elementare romagnola, 34 anni di cattedra alle spalle. «Ogni sillaba detta in classe viene presa, modificata, estremizzata», ha raccontato. «Non si tiene più conto del fatto che la comunicazione avviene in un certo contesto, che ogni parola ha un’intonazione, che viene accompagnata da gesti. Uno degli ultimi episodi successi nella mia classe la dice lunga: un alunno è andato in bagno ma dopo un po’, visto che non rientrava, la mia collega ha mandato un compagno a verificare che il bambino stesse bene. Quando il compagno è tornato in classe, ha detto che era tutto a posto: semplicemente, l’amico stava facendo i suoi bisogni. Al suo rientro, la maestra gli ha chiesto se si fosse lavato le mani, spiegandogli che l’igiene è importante quando si va alla toilette. Questa conversazione, riferita a casa e, con molta probabilità, strumentalizzata, ha fatto scoppiare il caso: è stato detto che il bambino era stato trattato male dall’insegnante e definito come un bimbo sporco. Apriti cielo». Forse meglio tornare ai vecchi, sani colloqui con gli insegnanti.