Lo diceva già Pirandello

A quanto pare, il placebo funziona anche se si sa che è un placebo

A quanto pare, il placebo funziona anche se si sa che è un placebo
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Sembra ufficiale: anche assumere un farmaco che non contiene alcun principio attivo - ovvero un farmaco tarocco - produce effetti terapeutici di un certo rilievo. Gocce all’acqua di rubinetto aromatizzate all’arancio, pastiglie di soli eccipienti, flebo di niente funzionerebbero - in alcuni casi - come i loro corrispondenti contenenti medicamenti.

L’effetto placebo - notissimo fino ad oggi per il suo impiego nella sperimentazione sugli umani (un gruppo di pazienti viene curato con un medicamento; un altro con pillole o gocce solo in apparenza identiche a quelle “vere”; alla fine si confrontano i risultati) sembra che non funzioni così come si era pensato fino ad oggi. Già cinque anni fa un ricercatore dell’Università di Harvard, Ted Kaptchuk, si era accorto che anche lo stato di salute dei pazienti consapevoli di far parte del gruppo di confronto, cioè di star prendendo niente, migliorava sensibilmente.

 

 

L’esperimento di Baltimora. Adesso l’Università di Baltimora ha deciso di vederci più chiaro. Succederà questo: i medici spiegheranno ad alcuni pazienti - volontari - che non hanno modo di contrastare la loro patologia, ma che somministreranno loro ugualmente alcuni farmaci privi di qualunque effetto per vedere come evolverà la loro situazione. Ci sarà una remissione della malattia? Si modificherà soltanto - in misura maggiore o minore - il quadro sintomatico? Vedremo.

Per il momento, ossia nel periodo intercorso fra le osservazioni del ricercatore di Harvard e i nostri giorni, le sperimentazioni col  placebo open label (coi malati cui è noto l’inganno, che a questo punto non è più inganno) hanno riguardato casi di depressione, emicrania, mal di schiena, sindrome da deficit di attenzione e iperattività. A Baltimora inizierà quella contro la spossatezza da trattamento contro il cancro.

Il punto forte della ricerca sarà - probabilmente - costituito dal tentativo di mettere a punto la formula con cui verrà spiegata ai pazienti la natura della terapia farlocca. Secondo il dottor Kaptchuk, tutto sta nel trovare il modo di far capire che il termine placebo non si riferisce solo al supporto fisico, materiale, del medicamento (che non è un medicamento), ma all’intero processo della somministrazione, ossia al quadro generale entro cui si colloca una pratica medica ormai consolidata e ritenuta in grado di trarre vantaggio dal rapporto fra mente e corpo (anche se ancora non si sa esattamente come interagiscano fra loro).

 

 

A Baltimora sperano che l’analisi dei risultati della sperimentazione sul post terapia anticancerogena permetta di individuare la presenza (o la mancanza) di particolari geni nel DNA dei volontari. Se, come si augurano tutti, l’efficacia del placebo fosse legata al profilo genetico, allora vorrebbe dire - ma questo lo aggiungiamo noi; è un pensiero che ci è venuto così, alla buona - che esiste un gene (o un gruppo di geni) responsabile del particolare piacere che si prova nel farsi ingannare sapendo di essere ingannati.

Il succitato Kaptchuk utilizza in proposito l’horror movie effect, ossia l’analogia con l’esperienza di chi ama i film di orrore perché gli piace essere terrorizzato pur sapendo che si tratta di una finzione. Si potrebbe anche uscire per una volta  dal politically correct per riferirsi ad altre situazioni visive anch’esse riconosciute come finte eppure molto ricercate, ad esempio sul web. Qualcun altro potrebbe invece dedicarsi a studiare la genetica dei frequentatori dei comizi elettorali o l’attivazione della sindrome da open label nel corso dei confronti televisivi o delle cronache dal parlamento.

E le patologie mentali? Nell’augurarci che la ricerca di Baltimora dia i suoi frutti nel vasto campo delle cure antitumorali non possiamo fare a meno di pensare che la teoria dell’inganno consapevole, detta anche della medicina senza medicine, raccoglierà i suoi frutti migliori nell’ambito delle patologie mentali che, fra l’altro, adesso sembrano non essere nemmeno loro quel che si pensava che fossero.

 

 

Un nostro articolo di qualche giorno fa sulla depressione terminava con queste affermazioni niente affatto tranquillizzanti del professor Cuthbert, direttore della ricerca traslazionale e dello sviluppo dei trattamenti al National Institute of Mental Health (NIMH): «Stiamo iniziando a ripensare da zero i disordini mentali». Vuol dire che finora non ne avevamo capito niente? Che ne avevamo un’idea eccessivamente confusa? «Il nostro attuale sistema diagnostico è a corto di cartucce per fare passi importanti nella ricerca». Significa che per qualche tempo ancora dovremo farci largo nella giungla con un coltellino svizzero? «Il nostro concetto di depressione è lo stesso dei tempi in cui non ne capivamo molto». Dunque quando ti diagnosticano la depressione è come se la Ford costruisse auto avendo ancora in mente il Modello T del 1908, il famoso Macinino? Pare che sia così. Non è che non lo si sapesse anche prima, ma adesso è ufficiale. E dunque un passo avanti è stato fatto.

E infine: cos’è la ricerca traslazionale (la “l” non è un refuso)? È l’ambito della medicina che si occupa di trasferire (da qui il nome) le scoperte dalla scienza di base alle tecniche che medici e infermieri sono invitati a usare per migliorare la salute dei pazienti e, più in generale, il benessere della popolazione.

Si avvicina il giorno in cui si scoprirà in maniera scientifica che la miglior medicina al mondo, la maggior fonte di benessere per gli umani, sono le bugie assunte in maniera seria e consapevole? Per il giornalismo si aprirebbero campi sterminati di intervento. A pensarci bene, tuttavia, neanche questa sarebbe una novità. Già il Padre nei Sei Personaggi pirandelliani aveva detto, rivolgendosi al figlio: «Frasi! Frasi! Come se non fosse il conforto di tutti, davanti a un fatto che non si spiega, davanti a un male che si consuma, trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta!». Una parola open label: «Zut!».

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