Quei controlli che tolgono il fiato al confine tra Giordania e Israele

Alle 8 di una mattina qualunque, al confine tra Giordania e Israele, potreste essere scambiati per presunti terroristi ed essere sottoposti ad una lunga procedura di accertamento. Nel sud dello stato giordano, dove il deserto degrada nel Mar Rosso, si trova la frontiera di Aqaba, ossia l’unico passaggio terrestre nel raggio di 400 km per entrare nello stato di Israele.
Lasciato il Taxi e raccolto lo zaino, io e il mio compagno di viaggio australiano imbocchiamo lo stretto passaggio che conduce alla zona di controllo passaporto. Uno sguardo veloce, un timbro di uscita, e veniamo invitati nella terra di mezzo verso l’ingresso dello stato di Israele. Una striscia di deserto costeggiata da filo spinato termina davanti ad un cancello metallico dove gli aspiranti viaggiatori vengono analizzati da telecamere e guardie armate di mitragliatrici automatiche.
La ragazza addetta al controllo passaporto ne scorre veloce le pagine, da uno sguardo al bagaglio e ci invitata a togliere la giacca e ad accomodarci su una panchina. Dopo circa 10 minuti di attesa, veniamo separati e interrogati sul nostro viaggio. Le domande sono inizialmente ordinarie fino a quando mi viene chiesto della mia barba, della mia religione e del perché qualche mese prima mi fossi recato in Turchia. Con il senno di poi, la barba hipster (oltre che a rendere la mia foto sul passaporto irriconoscibile), unita alla visita di Paesi di fede islamica non si è rivelata essere una combinazione vincente. Le mie risposte sono banali, ma sincere: sono di religione cattolica, la barba mi piace e a Istanbul sono andato in vacanza.
A quanto pare però non sono per nulla convinti. Vengo accompagnato in una stanza a parte, e le domande si fanno sempre più invadenti. Mi trovo quindi a giustificare come faccia a pagarmi un viaggio senza avere un lavoro, a come sia possibile non avere alberghi prenotati in terra straniera e come si faccia a viaggiare per 10 giorni con solo 7 kg di bagaglio (per chi fosse curioso la risposta a quest’ultima è: sporchi).
Lo zaino viene ispezionato una seconda volta e alla vista del laptop la situazione diviene quasi surreale. Mi chiedono di accenderlo e di entrare in Facebook. Nella successiva mezz’ora le mie amicizie, nonché conversazioni e status, vengono analizzate da due cortesi militari. Stesso trattamento viene riservato al mio smartphone, con in aggiunta alcune domande sulle relazioni intercorrenti tra me e alcuni dei miei ultimi contatti.
Dopo più di un’ora, una coincidenza con Gerusalemme persa e una certa paura, ritrovo il mio amico australiano e assieme varchiamo, finalmente, il confine.
Ora che mi trovo a scrivere questo articolo nella hall di un ostello di Gerusalemme, dopo una giornata passata tra militari e sguardi sospettosi, metal detector e passaporto sempre alla mano, capisco che i controlli sono stati fin troppo serrati, ma forse sono l’unico modo per prevenire la follia umana.