Era l'agosto del 2000

I misteri sull'incidente del Kursk il sottomarino che non riemerse mai

I misteri sull'incidente del Kursk il sottomarino che non riemerse mai
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Nell’estate del 2000 le Torri Gemelle erano ancora lì al loro posto, a fare bello lo skyline di New York. Nell’inverno precedente, a cavallo della notte di San Silvestro, il mondo aveva superato in bellezza il baco del millennio: un problemino negli orologi dei computer che avrebbe potuto mettere in ginocchio le banche, i servizi di sicurezza, i sistemi di difesa satellitari e perfino i telepass. Non era successo nulla. Nell’estate del 2000 le forbicine da unghie nel bagaglio a mano non erano ancora classificate come armi letali al pari della schiuma da barba. Se salendo sull’aereo si veniva inquadrati con in mano una bottiglietta d’acqua minerale mezzo vuota nessuno diceva niente.

In quella lontana estate 2000 l’URSS non c’era più da un pezzo, ma il fatto che il Presidente Putin fosse stato nel KGB, la polizia segreta, e che l’inno nazionale fosse rimasto lo stesso permetteva ancora di ritenere che poco o nulla fosse mutato in quell’impero di cupole d’oro, copricapi d’astrakan e di steppe. Anche il fatto che giornali e siti web mantenessero l’uso del cirillico portava alle stesse considerazioni.

 

 

L’estate del 2000 fu l’estate del Kursk, un sottomarino perduto in fondo al mare di Barents, a 108 metri di profondità. Non era un sottomarino sovietico, ma per noi nutriti di Caccia a Ottobre Rosso era pur sempre un soggetto da film sulla guerra fredda. Il fatto che fosse a propulsione nucleare sembrava fatto apposta per indurre pensieri sgradevoli su possibili testate del medesimo genere del motore. In realtà il K-141 Kursk, quando lo vedemmo sonnacchioso nel bacino di carenaggio, non pareva proprio l’ultimo gioiello della classe Oscar (un tipo di sommergibili russi tecnologicamente avanzati), ma un pachiderma che le lamiere imbullonate una sull’altra rendevano simile a un ippopotamo semisommerso cui fossero state adattate le piastre di un rinoceronte. Era lungo più di 150 metri e pesava più di 10mila tonnellate (100mila quintali, dicono le equivalenze) ma le foto da prua non permettevano di immaginare un corpaccione lungo una volta e mezzo la pista della corsa regina delle Olimpiadi.

La foto dell’equipaggio schierato sulla tolda con gran pavese al vento non lasciava presagire nulla di buono agli anziani che ne ricordavano di analoghe dal tempo di guerra, quando tanti eroi tutti giovani e belli - per dirla con Guccini - erano finiti in fondo al mare. E in effetti anche il Kursk, quando venimmo a conoscenza del suo essere al mondo, si trovava adagiato sul fondo del mare, incapace di risalire. Aveva la prua squarciata e non si capiva perché. E si giaceva così, a 65 gradi su un fianco, ormai da diversi giorni, ma la marina sovietica (pardon! la marina russa) aveva fino al momento mantenuta segreta la vicenda.

 

 

Ad aumentare il mistero era il fatto che il sommergibile si trovasse nel mare di Barents, che è quel mare grigio e tempestoso al limite settentrionale delle terre emerse dopo il quale si è portati a immaginare che il mondo, invece di continuare, precipiti nell’abisso ululante. Il fatto poi che il nome Poljarnyj ricorresse abbastanza spesso nelle agenzie - dalla base di Poljarnyj era partito Ottobre Rosso - e che Kursk fosse non solo il nome di una città ma, più probabilmente, quello della violentissima battaglia che nel 1943, nelle sue vicinanze, vide l’Armata Rossa prevalere sulla Wehrmacht, contribuiva a tenere alta la tensione emotiva.

La prima notizia che ci fu data era che 118 tra marinai e ufficiali si trovavano intrappolati in un sommergibile a oltre cento metri di profondità. La vicenda, come abbiamo detto, risaliva ad alcuni giorni prima. Il Kursk era impegnato in un’esercitazione navale; a un certo punto alcune basi norvegesi e svedesi per rilevamenti sismici e alcune navi americane avevano registrato due (tre?) esplosioni che potevano provenire dal Kursk. Dopo di che silenzio. Si pensò dapprima che il sommergibile avesse speronato - o fosse stato speronato da - un’unità inglese inviata a spiare le esercitazioni. Ma dell’unità della Royal Navy non c’era traccia negli immediati paraggi e uno speronamento del genere non poteva certo averla lasciata indenne. Alcuni giorni dopo fummo avvisati del ritrovamento di una nave adagiata sui fondali a qualche distanza dal Kursk, ma si trattava di oggetto che non poteva in alcun modo essere connesso all’incidente. Americani ed europei offrirono immediatamente i loro servizi alla Russia, che tuttavia rifiutò in maniera che apparve addirittura scortese: ce la facciamo da soli, fu la sintesi dei loro comunicati. A celebrare i funerali, pensarono gli altri.

 

 

Nel frattempo da tutta la Russia cominciarono ad arrivare i parenti del personale imbarcato (tutti militari tranne uno), soprattutto donne - madri, fidanzate, sorelle e spose - ogni giorno più inferocite dal fatto che il presidente Putin, invece di accorrere immediatamente sul luogo della sciagura, continuasse tranquillamente le sue vacanze nell’amatissima Sochi, nota cittadina turistica sul Mar Nero. Il presidente si sarebbe fatto vivo qualche giorno dopo affermando che la sua presenza non sarebbe stata di alcun aiuto ai soccorritori, ma la sua assenza non giovò certo al suo prestigio, sul momento. Fortuna per lui che i Russi dimenticano presto.

Si dimenticarono, ad esempio, di aver rifiutato pochi giorni prima l’aiuto di britannici e norvegesi, tanto che a un certo punto entrò in scena un attrezzo inglese super tecnologico, il batiscafo LR5 noto come “l’elicottero subacqueo” per la sua estrema maneggevolezza e affidabilità, che scese fino al relitto nella speranza di potersi agganciare a un boccaporto, aprirlo e far salire a bordo, pochi alla volta, i marinai del Kursk. Nonostante l’estrema versatilità dei meccanismi di aggancio l’LR5 non riuscì però nel suo intento: il boccaporto era infatti troppo danneggiato per consentire la tenuta stagna dell’attracco e un altra via d’accesso non poteva essere utilizzata perché richiedeva una manovra dall’interno: e dall’interno nessuno rispondeva agli inviti. Probabilmente erano già tutti morti.

 

 

Nonostante questa eventualità si facesse di ora in ora più probabile i norvegesi furono autorizzati a raggiungere il relitto (bruttissima parola, in quelle circostanze) con una specie di campana che, nei calcoli dei tecnici, avrebbe potuto costituire un tramite, una specie di camera di decompressione, fra l’elicottero subacqueo degli inglesi e il sommergibile.

Mentre i norvegesi lavoravano sul fondo, sulle banchine del porto di Severomorsk, la base della flotta del Nord di cui faceva parte il Kursk, i parenti continuavano a piangere e a inveire. Le agenzie mandavano messaggi contraddittori relativamente alle possibilità di sopravvivenza a bordo del sottomarino: alcune davano per sicura la morte dell’intero equipaggio entro poche ore dallo scoppio che si sarebbe verificato per il malfunzionamento delle attrezzature di lancio dei siluri: uno di loro si sarebbe inceppato provocando un’esplosione che ne avrebbe a sua volta innescata un’altra. Prima sarebbero morti i marinai impiegati a prua, poi tutti gli altri, per sopravvenuta mancanza di ossigeno.

Altre tenevano invece in piedi la speranza scrivendo che il Kursk disponeva di riserve di ossigeno sufficienti ancora per diversi giorni. Non si poteva dire con precisione quanti fossero perché non si conosceva l’ora precisa dell’incidente. Pian piano però anche le speranze più fantasiose andarono scemando e la tragedia si impose in tutta la sua estensione. A un certo punto i morti sarebbero addirittura aumentati a 130 dai 118 iniziali. Un elenco dei nominativi delle vittime fu diramato da un’agenzia russa che disse di averlo avuto da un ufficiale cui aveva versato l’equivalente di un milione e mezzo di lire italiane. Ma il numero esatto delle vittime non è mai stato dichiarato. Nemmeno quando una parte del Kursk fu recuperata per essere immediatamente smantellata - e nell’occasione furono identificati i corpi di 114 marinai - si seppe quanti mancavano all’appello.

 

 

Il resto del sommergibile, rimasto sul fondo, fu fatto esplodere perché il nemico non potesse impossessarsene e venire a conoscenza delle sue complicatissime apparecchiature. Anche il carburante nucleare fu issato in superficie, in modo da scongiurare una catastrofe atomica il cui fantasma continuò ad aleggiare come un incubo per tutta la durata delle operazioni.

Poi le esequie degli eroi. Che probabilmente tutto si aspettavano dalla vita, meno che di diventarlo in quel modo, perché morire in battaglia è un conto, morire perché il solito cretino non ha controllato il funzionamento delle attrezzature di lancio è decisamente un altro.

Nel luglio dello scorso anno alla stazione di Slavyansky Bulvar della metropolitana di Mosca il deragliamento di un convoglio della linea blu Arbatskaya provocò oltre venti morti e otto volte tanti feriti. «Il meccanismo dello scambio è stato fissato con del fil di ferro comune di 3 millimetri di diametro, cosa che ne ha causato la rottura provocando il deragliamento del treno dai binari», spiegò nell’occasione il portavoce della commissione d’inchiesta. Che fossero due o più di due gli imbecilli che si erano inventati quella riparazione poco importa. Come che fossero parenti o no dei responsabili della camera siluri del Kursk.

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