Quella brutta scenata di Serena che resta sempre, però, Serena

Contenere la rabbia, stringere i denti, gestire i nervi. Necessario, elegante, quasi sempre impossibile. C’è gente iraconda da giovane che col tempo si calma; c’è chi parte sereno e poi, a suon di ceffoni, si spazientisce; c’è chi ci nasce; c’è chi non imparerà mai. Serena Williams proprio calmissima non è mai stata. La fisicità, la grinta, il gioco, il servizio a 200 km/h hanno sempre comunicato una furia impetuosa nel gestire lo sport e la vita. E l’ultima partita è stata un episodio che ricorderemo.
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Il momento è solenne, la finale degli US Open. Ci sono una giovanissima giappo-haitiana Naomi Osaka, che porta un tennis fresco e quasi impeccabile, davanti al suo mito, la tigre Serena Williams. Le cose non stanno andando molto bene: Serena ha perso il primo set 6-2. Arriva il primo warning per coaching: Mouratoglou, l’allenatore dell'americana, viene sorpreso mentre indica a Serena di posizionarsi verso il fondo. Il regolamento però, proibisce ai giocatori di interagire con gli allenatori durante gli incontri degli Slam e il divieto si estende a qualsiasi tipo di comunicazione, sia verbale che visiva. Così il richiamo scatta, che il suggerimento sia vietato o meno. Serena non ci sta, nega il coaching e tiene a sottolineare all’arbitro che lei non imbroglia per vincere. «I’d rather lose», preferisco perdere, dice.
Le cose vanno male, Serena compie un gesto di stizza e rompe la racchetta al suolo. Altro warning - il regolamento vieta anche questo gesto, il raquet abuse -, che così diventano due e quindi scatta la penalità: viene dato un punto alla sua avversaria. Ancora una volta, applicazione precisa e pedissequa, implacabile, del giudice di sedia Ramos. Ma ecco che inizia lo psicodramma. Serena grida, pretende delle scuse, ne fa una questione di principio, vuole ribadire che non c’è stato coaching (la prima penalità che le è stata chiamata), vuole che l’arbitro lo annunci al microfono pubblicamente e che si scusi con lei. Si siede, nervosissima, prende ancora un sorso d’acqua. Insiste, vuole delle scuse, «non si scusa? E allora non parli più con me, non arbitrerai mai più una mia partita finché vivrai». Gli dà del ladro, «mi hai rubato un punto, sei un ladro». Ramos ascolta e fa scattare la terza penalità nei confronti della Williams: verbal abuse. Che significa un game assegnato d'ufficio all'avversaria.
La giovane tennista giappo-haitiana si sta preparando per servire e si copre il volto con le mani; c’è la sua avversaria, il suo idolo – senza Serena lei non sarebbe lì, e anche anagraficamente potrebbe essere sua mamma - che ha perso le staffe e si trova in palese difficoltà. Ma la lite non si placa. Serena ribadisce che l’arbitro la sta attaccando personalmente per avergli detto la sua opinione, per essersi difesa. Capisce che l’interlocutore non arretrerà di un millimetro e si rivolge al direttore del torneo Brian Earley che parla con l’arbitro, mentre lei, ormai quasi in lacrime, cerca la solidarietà di Donna Kelso, della WTA. «Non è giusto – continua -, so che non può ammetterlo – si rivolge a Earley – ma ci sono uomini che fanno molto peggio di così, sono punita perché sono una donna. Ho una figlia, le insegno cosa è giusto e cosa no, io non imbroglio».
La partita finisce 6-2 6-4 per la Osaka, con la Williams sconfitta davanti al pubblico di casa. Alla premiazione, il pubblico fischia. Serena abbraccia Naomi, dice che l’avversaria ha meritato di vincere e che lei supererà questo brutto episodio. Poco dopo, in conferenza stampa, ribadisce con molta più calma quello che già aveva detto durante la partita. Sicuramente un brutto spettacolo, una campionessa in crisi di nervi. Dal premio per il suo secondo posto saranno decurtati 17mila dollari, cifra pari alla multa che le è stata comminata per le tre irregolarità in campo.
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Sul coaching gli esperti si dividono. Mouratoglou, l’incriminato ammette che sì, c’è stato il coaching, ma c’è stato anche dall’altra parte, dall’avversaria Osaka e c’è sempre: «Lo fa anche Nadal con il suo allenatore e zio, Toni, che guida ogni singolo punto, dunque non capisco». Mardy Fish twitta: «Ragazzi, lo fanno tutti». Stacey Allaster, presidentessa della WTA dice: «Sappiamo che gli allenatori seduti in panchina comunicano costantemente con gli atleti, è tutto molto ipocrita. Potrebbe essere anche più divertente per i fans». Ma a Wimbledon, inglesi reali che non si smentiscono, non sono d’accordo: «Siamo ideologicamente contrari, il tennis è uno sport individuale, come uno scontro fra gladiatori, scendi in campo e sai di essere solo. E la bellezza del tennis, che lo distingue da tutti gli altri sport».
Le crisi di nervi vengono raramente tollerate. Il mondo ci vuole composti nelle sconfitte, misurati nelle vittorie. Eleganti nelle reazioni. Nessuno vuole vedere nessuno crollare. Le crisi vengono raramente tollerate soprattutto nelle donne: sei isterica, sei pazza, sei insoddisfatta, sei invidiosa. Agli uomini un scatto di rabbia può aggiungere autorevolezza e schiettezza, niente a che vedere con i capricci dell’utero. Doppio standard dunque, che tu sia una tennista o un avvocato o una commessa o una cuoca e così via. Il momento era delicato, c’era una campionessa, una professionista con esperienza ventennale (quando lei era numero 1 del mondo, nel 2002 per la prima volta, Osaka aveva cinque anni) che si sente vittima di ipocrisia e ingiustizia e risponde con le due difese peggiori: lo fanno tutti, fai così perché sono una donna. Verosimile, ma riconoscere il sessismo vuol dire anche saper vedere anche quando non c’è. Arbitraggio schierato: probabile. Arbitraggio ipocrita: possibile. Ma arbitraggio sessista?




È stancante anche per Serena, dunque, capire quando la discriminazione è basata sul sesso, quando hai semplicemente incontrato un idiota, quando è una bruttissima giornata e ti sono capitate entrambe le cose. Il tennis si vende come sport per nobili, abbigliamento di cotone bianco e movimenti armonici. Può essere invece uno sport atroce, una lotta ancora più cattiva di quella che avviene su un ring, soprattutto quando è singolo. Crudele come pochi altri confronti, brutale per struttura, richiede un fisico da atleta e una testa da pokerista, un carattere equilibratissimo, un baricentro forte e un rapporto sanissimo con il fallimento. Si scontrano due esseri umani, faccia a faccia, si torturano a vicenda, si cercano le crepe dell'altro e si punta a colpire proprio lì, dove non c'è la scorza, e si fanno del male, chiedendo a loro stessi a ogni punto, il massimo dell’energia. Essere in forma è indispensabile, perdere non piace a nessuno, essere stanchi va bene, perdere le staffe pure e Serena è sempre Serena, anche dopo una brutta scenata.