La parola alla difesa

E se non fosse il Dna di Bossetti?

E se non fosse il Dna di Bossetti?
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È passato un anno da quando la Corte d'Assise di Bergamo ha condannato all'ergastolo Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ne sono passati tre, invece, dal pomeriggio del 16 giugno 2014, quando le forze dell'ordine lo arrestarono mentre lavorava in un cantiere a Seriate. Da allora, per lui, è come se il tempo si fosse fermato. Unico obiettivo: dimostrare la propria innocenza. Neppure il peso della pressione mediatica, quello dell'umiliazione di veder la propria vita vivisezionata in un'aula di tribunale, quello degli indizi e del Dna trovato sul corpo della piccola vittima lo hanno schiacciato. Venerdì 30 giugno è iniziato a Brescia il secondo grado. A inizio giugno, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, i legali di Bossetti, hanno depositato un documento di 102 pagine contenenti i motivi aggiunti al ricorso ed è da quelle pagine che si ripartiva, da quella condanna all'ergastolo. Giovedì 6 luglio, la difesa ha dato corso a un'arringa - nove ore, a cui ne seguiranno altre lunedì prossimo -, in cui Salvagni ha prima paragonato il caso di Bossetti a quello di O.J. Simpson e poi ha definito «spazzatura» l’esito delle analisi scientifiche sul Dna di Ignoto 1: la richiesta di una super perizia genetica, negata in primo grado come «non decisiva», rimane quindi il fulcro della difesa.

 

Avvocato Salvagni, ci siamo.
«Sì, sono molto concentrato. Abbiamo lavorato tanto, speriamo bene».

Cosa contengono quelle 102 pagine?
«Precisazioni e nuovi elementi che renderemo noti solo in aula. Abbiamo sviluppato ulteriormente i nostri argomenti, in particolare quelli sul Dna. La metà delle pagine sono riferite ad esso».

Una prova fondamentale.
«È un processo interamente costruito attorno al Dna. Ma, come dimostra la sentenza di primo grado, la traccia biologica da sola non basta».

Cosa c’è in più?
«Una serie di elementi con cui la sentenza ha puntellato la prova del Dna. Indizi che la stessa sentenza, però, definisce “ambigui”. Presi singolarmente sono privi di capacità individualizzante».

Insieme al Dna, però...
«Ok, ma è stato fatto un procedimento logico assurdo. L’indizio deve avere una sua “dignità”, a prescindere. Dev’essere grave, preciso e concordante. Qui non c'è nessuno di questi elementi. È come dire: sia Bossetti che Yara ascoltavano musica rock. E allora?».

 

 

Ci può fare qualche esempio?
«La presenza delle sfere metalliche sul corpo della vittima. Che significato hanno? Consideriamo che a poche decine di metri da dove è stato trovato il corpo c’è una ditta che utilizza materiale ferroso. E poi sono diverse da quelle trovate sul furgoncino di Bossetti: le prime sono di ferro, le seconde di acciaio. L’accusa dice: “Però non sappiamo che metallo stesse lavorando l'imputato ai tempi dell’omicidio”. Appunto. Siamo nell’ambito delle ipotesi».

Altro?
«Le fibre trovate sul corpo della vittima, ritenute simili a quelle dei sedili del furgone di Bossetti ma comuni a moltissimi automezzi. Non è stata neppure analizzata la sezione di quelle fibre. Hanno detto che se avessero tolto le fibre dallo strip le avrebbero rovinate. Ma il processo ha bisogno di prove...».

Cosa chiedete, quindi?
«Non ci siamo mai sottratti al desiderio di un confronto processuale serio. Abbiamo sempre chiesto di formare in contraddittorio le prove. Non possiamo accontentarci di un indizio ambiguo quando si può avere una prova. Non temiamo il confronto, vogliamo trovare la verità, almeno quella processuale. E la verità processuale si ottiene attraverso il confronto tra accusa e difesa. In questo processo, invece, si è dato per buono solo ciò che ha fatto l’accusa».

Non vi fidate?
«Il problema è che abbiamo trovato una marea di contraddizioni e di anomalie, parola che ricorre un sacco di volte anche nella sentenza. Tutto ciò che non si incastra perfettamente, diventa un’anomalia. Non basta, l’anomalia la devi spiegare».

Anche il Dna è pieno di anomalie?
«Soprattutto il Dna. A partire dal fatto che non si sa che traccia biologica sia. Sangue? Saliva? Sudore? L'unica cosa che sappiamo per certo è cosa non è: non è sperma».

 

 

Questo è sicuro?
«Sono stati fatti tre test, uno più sofisticato dell’altro, l’ultimo addirittura con una tecnologia tedesca in grado di identificare anche soltanto un singolo spermatozoo. Tutti hanno escluso che si tratti di sperma. Ma la sentenza, piuttosto che ammetterlo, dice che non ci sono riscontri tali da farci dire che cosa sia quella traccia».

Beh, è vero.
«Sì, ma non è onestà intellettuale: se sappiamo cosa non è, la sentenza deve dirlo».

È così importante?
«Assolutamente sì, anche perché il Dna mitocondriale rinvenuto nella traccia non è collegabile a Bossetti, a differenza del nucleare. A livello scientifico, l'unico caso in cui ciò avviene è nello sperma. Nello spazio che unisce “testa” e “coda” dello spermatozoo è contenuto il mitocondriale. Nel momento in cui la coda si stacca dalla testa, il mitocondriale si perde. La sentenza, quindi, non precisa che non si tratta di sperma perché ciò giustifica l’anomalia».

Resta quindi il mistero.
«Già. Però non possiamo alzare le braccia e dire che la scienza deve fermarsi, come ha fatto il pm nella requisitoria. No, mi serve la spiegazione scientifica. Se io faccio una moltiplicazione e poi la prova del nove e i risultati sono diversi, devo andare a verificare cosa ho sbagliato. Non è possibile che non siano uguali».

Per questo chiedete un nuovo esame?
«Esatto. Siamo convinti che sia stato fatto un errore, visto che non può esistere una situazione del genere in natura».

Non potrebbero aver sbagliato a individuare il Dna mitocondriale?
«Può essere. Noi non temiamo nulla, accettiamo anche questo rischio».

Qual è la vostra opinione al riguardo?
«Noi crediamo che il mitocondriale, non collegabile a Bossetti, sia corretto e che quello sbagliato sia il nucleare. Anche perché sul mitocondriale ci hanno lavorato tre istituti e quattro consulenti diversi: nessuno ha rilevato delle anomalie».

 

 

E il nucleare?
«Lo ha studiato soltanto il Ris in fase di indagine».

Ma il test è ripetibile?
«Il professore Giorgio Casali, consulente della Procura, ha detto in aula di avere ancora reperti da analizzare in laboratorio. Quindi per me si può rifare. In qualsiasi Paese civile devi consentire all'imputato di difendersi. Se trovi tot Dna, metà lo usi per le indagini e metà lo tieni per la difesa. Altrimenti, scusate, facciamo a meno del processo. Qui il Dna è l’architrave di tutto, non è possibile che l’imputato non si possa difendere».

L'accusa non ha alcun dubbio su quel Dna.
«Loro dicono di aver rifatto il test 71 volte, ma non è così. Le analisi su tutti i marcatori sono state fatte in realtà soltanto tre volte, e per di più senza che fossero rispettati i requisiti richiesti dalle procedure internazionali».

Cioè?
«Cioè che i kit di indagine siano in corso di validità, che ci sia un controllo positivo valido e ce ne sia uno negativo valido. Solo un test che rispetti contemporaneamente questi tre elementi è ritenuto valido. Non è una questione di lana caprina, è una questione di diritto».

E quante volte è stato fatto il test rispettando i criteri?
«Zero volte. Zero. E allora, scusate, noi non dobbiamo chiedere di rifarlo?».

Se tutto ciò fosse provato, potrebbero davvero respingere la vostra richiesta?
«Potrebbero. Però io credo che un diniego rappresenterebbe una grave lesione del diritto di difesa, roba da Corte di Strasburgo».

Quindi siete ottimisti?
«Abbiamo dalla nostra la forza della ragione. Non si può pensare che un processo arrivi a sentenza definitiva senza che queste anomalie siano verificate. Bisogna spiegarle».

E se risultasse, anche dopo un altro test, che quel Dna è di Bossetti?
«È un argomento ricorrente, questo. Lo stesso Bossetti ha detto: “Se risulta davvero mio, taccio per sempre”. Ma non è giusto. La presenza di Dna non è significativa dell’azione che si sta ricostruendo. Il trasferimento del Dna è semplicissimo da fare, può avvenire in qualsiasi modo e circostanza. Chi ha visto le foto del ritrovamento del cadavere di Yara, sa bene che a pochi metri c’era un fazzoletto insanguinato. Se quel fazzoletto, che nessuno sa di chi sia, fosse entrato in qualche modo in contatto con la vittima, ci sarebbe potuto essere un trasferimento. Il Dna è importante,ma da solo non può comportare la colpevolezza. Serve anche una ricostruzione che giustifichi la presenza di quella traccia».

Intende dire un movente?
«Anche. E qui manca, lo ha detto anche il pm. Ma, soprattutto, la sentenza non può far finta di non vedere elementi oggettivi: Bossetti e la vittima non si conoscevano, non si erano mai incontrati. Dove, come e quando è stata presa Yara? Come ci è arrivata Chignolo? Son tutte domande senza risposta. È andata volontariamente con il suo assassino? Il fratellino di Yara ha raccontato che, proprio in quel periodo, lei aveva paura di un uomo con la barbetta. E, se aveva davvero paura, perché sarebbe dovuta salire sull’auto di quell'uomo da sola?».

 

 

Bossetti ha la barbetta.
«E infatti nell'ordinanza di custodia cautelare questa testimonianza era stata utilizzata come elemento a carico di Bossetti. Peccato che poi il fratellino della vittima abbia precisato che l’uomo era anche robusto. Quindi questa cosa è stata completamente abbandonata, neppure portata a processo».

Questi elementi sono ancora poco noti alla gente nonostante la grande attenzione mediatica. Lo dimostra il documentario che ha realizzato la BBC e che ha trasmesso Sky. Lei ha partecipato. Lo ha visto?
«No, mi sono rifiutato quando mi hanno riferito come sarebbe stato strutturato. Una ricostruzione palesemente accusatoria».

In che senso?
«Su quattro puntate noi ci siamo soltanto nell’ultima e proprio perché non potevano non metterci. Mi pare un’autocelebrazione dell’inchiesta, con pm e ufficiali vari che hanno parlato di quanto sono stati bravi».

A chiusura del documentario, il pm dice: «La difesa non ha portato prove tali da farmi cambiare idea sulla colpevolezza di Bossetti».
«Premesso che l’onere della prova grava sull’accusa e non sulla difesa, io vado oltre. Mettiamo anche che Bossetti sia colpevole: processualmente lo devi dimostrare. E devi permettere alla difesa di svolgere il proprio compito. Noi non abbiamo neppure potuto vedere i reperti!».

Perché?
«Lo abbiamo chiesto due volte, ma niente. Io devo poter vedere se ciò che loro hanno affermato in aula corrisponde al vero. Ho il diritto di farlo. Del resto che in Italia ci siano stati processi con ampi depistaggi è cosa nota, purtroppo. Io non posso fare atto di fede».

Ma è almeno fiducioso?
«Non posso non esserlo. Perché sono convinto dell’innocenza di Bossetti, ma anche perché altrimenti dovrei cambiare lavoro. Prima di essere difensore di Bossetti, sono difensore della mia toga».

Cosa intende dire?
«Intendo dire che se passasse questa linea accusatoria, oggi sul banco degli imputati c'è Bossetti ma domani potrebbe esserci uno di noi. La prova si forma in dibattimento, in contraddittorio tra le parti: è il processo accusatorio. Altrimenti torniamo al processo inquisitorio. Ma non a quello recente, a quello medievale».

 

 

Crede possa influire sulla sentenza il clima di scontro creatosi tra colpevolisti e innocentisti?
«Spero di no. Il processo non è una partita, è la ricerca comune, di accusa e di difesa, di una verità processuale. Se questo è l’approccio che utilizzerà la Corte, non si potrà che ottenere un confronto equo in seguito alla quale il giudice deciderà in maniera serena».

È per questo che la stampa non potrà essere in aula?
«Non lo so. Personalmente ritengo che qualsiasi processo abbia un interesse pubblico. Figurarsi in questo caso, un’inchiesta che ha fatto parlare tutta Italia e anche all’estero, con rilevanza scientifica elevata. È un processo storico».

Come sta vivendo l'attesa Bossetti?
«È molto carico, desideroso di affrontare questo secondo grado di giudizio. Per lui è un po’ il momento catartico, quello in cui finalmente qualcuno gli darà ragione. Sono io che sto cercando di essere più cauto. Un ’eventuale conferma della sentenza sarebbe una mazzata pesantissima».

Tutto si gioca quindi sulla ripetizione del test.
«Se dovessero accettare la nostra richiesta, lo dico e lo firmo, vinciamo. Perché sono certo che in quel Dna lì c’è qualcosa che non va».

 

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