Le ragioni dell'impasse Usa nella guerra contro l'Isis
28 agosto. Nella conferenza stampa del martedì il presidente Obama dice di non avere, al momento, alcuna strategia riguardo all’IS (o Isis). «Un esempio da manuale di ciò che un veterano dei giornalisti, Michael Kinsley, definisce gaffe politica che si verifica quando un esponente politico dichiara “una verità ovvia che nessuno si aspetterebbe che dicesse”» (Anthony Zurcher, BBC News). Il commento più graffiante a questa uscita è forse quello di William Kristol su The Weekly Standard:
Il Presidente Obama non ha nessun tipo di strategia di guerra perché non ha alcuna intenzione di accettare il fatto che siamo già in guerra. In fondo continua a pensare che “la marea va calando”. Per questo anche quando mette in campo una qualche operazione bellica lo fa in maniera molto incerta, quasi schermendosi, un po’ a casaccio. Prepararsi a una guerra, articolare una strategia, impegnarsi a vincerla - tutto ciò farebbe della presidenza Obama una presidenza di guerra. Ma essere un presidente di guerra fa a pugni con l’immagine che Obama ha di sé. E per Obama, l’immagine di sé ha sempre la meglio sulla realtà.
29 agosto. Il Segretario di Stato Americano, John Kerry, scrive sul New York Times un articolo intitolato: La minaccia dell’ISIS richiede una coalizione globale. La testata della pagina proclama, in carattere grande: Per battere il terrorismo abbiamo bisogno dell’aiuto del mondo. Spiegato (un po’ troppo in lungo) come l’Isis sia ferocissimo e attualmente vincente, ma non imbattibile, Kerry lascia intravvedere che l’auspicata coalizione potrebbe cominciare contrastando i fattori al momento sotto traccia che alimentano le forze del terrore. Certo, prosegue, "mettere in piedi una coalizione è un’impresa dura, ma è il miglior modo per “placcare” un nemico comune”. Ovvio che a capo ci sarebbero gli USA, ma tutti vi avrebbero comunque un posto di assoluto rilievo.
A conforto di questa prospettiva propone un caso fin troppo noto, la I guerra del Golfo: "Quando Saddam Hussein invase il Kuwait nel 1990, il Presidente George Bush (il primo di quel nome) e il Segretario di Stato James A. Baker III, non agirono da soli o in modo precipitoso. Misero in piedi passo dopo passo una coalizione di Stati che, agendo di concerto, ottennero la vittoria in pochissimo tempo. Gli estremisti sono sconfitti solo quando nazioni responsabili e i popoli che le formano si uniscono per opporvisi.
Il richiamo è significativo. La guerra in oggetto è considerata un punto di svolta decisivo nella storia delle strategie belliche: è quella che ha mostrato il vantaggio che si ottiene mettendo in campo un armamento dotato delle tecnologie più avanzate. I generali Colin Powell - futuro Segretario di Stato - e Norman Schwarzkopf (soprattutto quest’ultimo, da un punto di vista operativo) ne sono stati i perfetti interpreti. Ma l’Operazione Desert Storm (il nome con cui questa guerra è passata alla storia) è anche l’azione che ha segnalato l’insufficienza profonda del modo “tecnologico”di pensare la guerra.
Conquistata Baghdad in pochissimi giorni, lo ricordiamo tutti, gli USA lasciarono in sella Saddam Hussein. Furono costretti a farlo perché si accorsero che non avevano niente con cui sostituirlo. Avrebbero dovuto saperlo da molto prima, ossia da quando, permettendo la caduta dello Scià nel vicino Iran, si videro occupare il paese dal regime degli ayatollah. Gli USA, come si disse, sanno vincere (quando le vincono) le guerre, ma non sanno gestire la pace. Il limite dell’ideologia della guerra tecnologica è costituito dal fatto di isolare l’azione militare rispetto al suo contesto politico e sociale. È la tesi di due colonnelli cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangsui, in un libro (Guerra senza limiti. L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, editrice Goriziana) la cui edizione italiana è corredata da una postfazione del Generale Fabio Mini che è fra gli scritti più lucidi che si possano leggere di questi tempi.
La scelta di Kerry di richiamare una vittoria come quella di Desert Storm può dunque significare solo una cosa: che la speranza di battere il terrorismo è affidata, ancora una volta, ad un presunto vantaggio tecnologico sugli avversari. Tralasciando il fatto che un simile vantaggio è tutto da dimostrare - al momento - la domanda vera che gli USA, ma non solo loro, dovrebbero farsi è la seguente: una volta messo a tacere al-Baghdadi, come riconoscere “i suoi”, ossia come identificarli quando abbiano abbandonato le nere uniformi, dato che le milizie dell’IS costituiscono - a quanto sembra - la quasi totalità della popolazione sunnita della regione? - per non parlare della “legione straniera” accorsa da ogni parte ad autoarruolarsi ai suoi ordini.
Quella che si sta combattendo in Mashreq (il nome arabo della zona in questione, usato un tempo anche dagli Inglesi e forse da ripristinare) non è un pezzettino della III guerra mondiale - secondo l’efficace denominazione di papa Francesco - è forse la I guerra post-moderna, quella nella quale a una vittoria sul campo non corrisponde necessariamente l’acquisizione del potere su una regione o su uno stato preesistente.
L’idealismo americano, come lo ha chiamato Kissinger nella presentazione al suo prossimo libro, si fonda sulla memoria del suo ultimo vero successo, quello che portò alla sconfitta del nazismo e alla liberazione dell’Europa occidentale. Ma nell’occasione la presa di Berlino poté condurre alla pace perché gli Stati europei disponevano di un plafond istituzionale, culturale e sociale che le tirannie in corso non erano comunque riuscite a distruggere del tutto. E fu questo sostrato profondo a consentire la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra. Ma nella Siria-Iraq e nelle zone culturalmente assimilabili ad essa in altre parti del mondo, cosa succederebbe una volta presa la nuova Berlino, si chiami essa Baghdad o Damasco?
Gli esiti della II guerra del Golfo, saltata da Kerry a piè pari nella sua ricostruzione della storia ad usum coalitionis sono sotto i nostri occhi: succederebbe il caos. L’Afghanistan è lì a rinforzare l’ipotesi.
A Obama non manca dunque solo una strategia anti IS. Manca una visione del mondo. Ed è ancora peggio.