Remuzzi: «Il virus è un osso duro. Per due anni serviranno le mascherine»
«Per avviare la Fase 2 bisogna fare i test alla popolazione, poi cautela: mani lavate e distanze almeno fino ai primi mesi del 2022»
di Paolo Aresi
Giuseppe Remuzzi non ha bisogno di presentazioni. Per tanti anni primario di nefrologia e dialisi all'ospedale di Bergamo, ricercatore di fama internazionale, dal 2018 è direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.
Dottor Remuzzi, sembra che il peggio di questa epidemia sia passato e che ci affacciamo a una “fase 2”. Che cosa ne pensa?
«Sì, con tutte le cautele del caso perché il virus non è scomparso e quindi è necessario agire con prudenza».
Ora si parla della necessità di eseguire dei test per confermare le guarigioni, per capire chi davvero è immune e chi no.
«Ci sono tre possibilità. Una è data dal famoso tampone che rileva la presenza del virus. È un tampone come tanti che si usano per riconoscere le infezioni batteriche. Ti dicono se in quel momento sei infetto oppure no. Fotografa il presente. Nei soggetti ammalati a causa di questo Coronavirus, ricoverati in ospedale, se ne fanno tre. Il primo dice se sei infetto o no. Gli altri due si eseguono alla dimissione del paziente per accertarne la guarigione. Se ne fanno due a distanza di tempo per avere maggiore sicurezza che l’infezione sia terminata».
Il tampone garantisce risultati certi?
«Dobbiamo capire una cosa: i risultati non sono mai certi al cento per cento. Ma questo vale per ogni infezione virale, anche quella della normale influenza. Gli accertamenti possono arrivare a una sicurezza magari del novantacinque per cento, ma mai del cento per cento. È chiaro?».
È chiaro. Ma perché?
«Perché, per esempio, potrebbe essere rimasto nel paziente l’RNA del virus, allora il tampone dice che sei ancora infetto. Ma quell’RNA - cioè il filamento di materiale genetico - non è più attivo perché le altri parti del virus non sono più presenti».
D’accordo. Ma i tamponi ci dicono soltanto la situazione di oggi. Sono una garanzia soltanto per il malato che è guarito. Gli altri possono essere sani oggi e prendersi il virus domani.
«Esatto».
Come si può allora sapere se un soggetto sano è immune oppure no?
«Parlavo prima di tre possibilità. Una è il tampone, con i limiti che abbiamo visto. La seconda è il test sierologico. Ce ne sono in giro un centinaio di questi test che si fanno in maniera molto semplice, su una sola goccia di sangue. Però attenzione: non tutti sono validi».
Come funzionano questi test?
«Sono in grado di mostrarci se abbiamo sviluppato o no gli anticorpi contro questo virus che si chiama SARS-CoV-2, dove “CoV” sta per Coronavirus, che è la famiglia, mentre SARS è la specie (e Covid-19 è il nome della malattia). Ma siccome le cose non sono semplici, bisogna considerare alcuni fattori».
Per esempio?
«Che l’organismo se attaccato da un virus sviluppa tre classi di immunoglobuline, cioè tre tipi di anticorpi: le IgM si sviluppano nei primi giorni della malattia. Intorno al decimo giorno si sviluppano le immunoglobuline G specifiche (IgG) e poi le immunoglobuline A, che sono presenti non solo nel sangue, ma anche nella saliva e nelle lacrime, per esempio. Le IgG sono quelle che hanno “memoria”, quelle attivate dai vaccini, capaci di protezione a lungo termine contro i microorganismi. Ora, solo alcuni test rapidi sono in grado di capire se queste immunoglobuline G siano attive e capaci di neutralizzare il virus».
È un discorso di probabilità.
«Sì. Se hai in effetti le immunoglobuline G specifiche anti-Coronavirus, significa che al settanta-ottanta per cento sei immune».
È comunque un passo importante.
«È un passo importante, un primo “screening”. Ma per avere la quasi certezza del risultato, bisogna passare al terzo punto che dicevo, bisogna effettuare un test che si chiama ELISA. Non è una procedura strana, avviene così per ogni virus, compreso quello dell’influenza».
In che cosa consiste ELISA?
«Si fa attraverso un esame del sangue. Occorrono laboratori attrezzati come quelli degli ospedali o dei centri specializzati, non bastano una goccia di sangue e pochi minuti per avere il risultato. Però garantiscono una probabilità molto alta, intorno al novantacinque per cento».
Quindi, che cosa dobbiamo fare?
«Per avviare questa fase due, in ogni caso, è importante fare il test rapido a tutte le persone che escono dalla quarantena e che tornano a una vita “normale”. Ora, il problema è “affinare” questi test in modo che siano il più possibile validi».
Il Mario Negri lavora anche in questo campo?
«Sì, noi abbiamo un test elaborato da un laboratorio svizzero, lo stiamo verificando e validando. Stiamo lavorando anche a un test che riveli tutte e tre le immunoglobine e che dica anche se sono capaci di neutralizzare il virus. Allo stesso tempo, questo nuovo test dovrebbe dire anche se il virus è ancora attivo nel nostro organismo».
Ci sono ancora diverse incertezze.
«Per forza, è la prima volta che l’uomo e questo virus si trovano di fronte. L’impatto è stato molto violento. Noi stiamo studiando, cercando di capire, ma in poco tempo non è facile. Per lo stesso virus non è facile. Vede, il virus è un parassita, il suo obiettivo è sopravvivere. Per sopravvivere deve trovare un modo tranquillo di essere ospite in altri organismi, compreso, ormai, anche quello umano».
Quindi dopo questa fase violenta potrebbe “tranquillizzarsi”?
«È probabile, nel corso degli anni. Potrebbe mutare e trasformarsi in un virus non così nocivo, come tanti virus del raffreddore, per esempio. Ma ci vogliono anni».
Per i prossimi mesi che cosa suggerisce?
«Prima di tutto bisogna fare questi test alla popolazione, daranno una relativa sicurezza. Poi sarà necessario mantenere la prudenza, la distanza fra le persone, le mascherine, fino ai primi mesi del 2022, almeno. Se non arriva il vaccino, il pericolo del contagio, dalle nostre parti, potrebbe protrarsi fino a circa il 2024».