Reportage dal confine turco-siriano Tre storie e altrettante famiglie

Fotografie di Mario Rota.
Kilis significa certamente bambini. Li vedi ovunque: a scuola, per le strade che giocano o rovistano nei cassonetti, che svolgono i lavori più disparati, nelle case che visitiamo. Bimbi che tendono le mani per giocare e bimbi che si nascondono dietro ad una tenda. Ogni bambino strappa grandi emozioni, ma sono gli adulti, quelli verso cui proviamo diffidenza o vergogna che ci narrano storie di grande umanità. Ecco solo tre brevi esempi delle storie incontrate.
Visitiamo una casa con tre adulti: un uomo e due donne, tre fratelli. Sono appena arrivati dalla Siria dopo la liberazione dei loro Paesi dall’Isis da parte dell’esercito Turco. Ci raccontano delle leggi strettissime imposte dallo Stato islamico ma anche che c’è lavoro per tutti e pagano bene, molto bene. Ma la sicurezza del lavoro ha avuto un alto prezzo per loro: due adolescenti maschi uccisi in combattimento e due ragazzine portate via a forza, sposate a soldati dell’Isis e rimaste in Siria al seguito dei mariti, come tradizione vuole.
In un’altra casa ci attende una piccola famiglia di solo tre elementi: padre, madre e una bambina di un paio di anni. Lui ci accoglie sdraiato sotto una coperta. Ha 27 anni anni ma ha uno sguardo sfinito: gravemente ferito – militava sotto le bandiere dell’esercito siriano libero – da una scheggia di granata che gli è penetrata nel ventre, ha perso l’uso delle gambe. Ha una vistosa medicazione e ci fa mostrare dalla moglie le protesi fornite da un’Ong che ancora non riesce ad utilizzare. Prendiamo il te e prima di andare ci confida una cosa “buffa”, secondo lui: è stato ferito dal fuoco amico degli americani che hanno scambiato le loro postazioni per quelle dei miliziani del Daesh.
A proposito perché Isis o Daesh come preferiscono chiamarlo i musulmani? ISIL e la sua variante ISIS sono acronimi di “Islamic State in Iraq and the Levant”, il nome che il gruppo si è dato dal 2013 al 2014. L’utilizzo del termine ISIS è considerato offensivo per molti musulmani, che ritengono che in questo modo venga legittimata un’accezione negativa dell’aggettivo “islamico”. Il termine “Daesh” sarebbe, invece, preferibile perché nonostante si riferisca alla stessa cosa di ISIS, la sua pronuncia in arabo è simile a una parola che stando a quanto scrive il Guardian significa “colui che semina discordia”.
L’ultima storia ci vede nella casa di una giovane donna il cui marito se ne è andato in cerca di lavoro ormai da un anno. Con lei l’immancabile stuolo di bimbi e lo zio dei bambini. È proprio lui che si presenta a noi, armato e diffidente. Parlando veniamo a sapere che lui faceva parte dell’esercito fedele al regine di Assad. Non vuole essere ripreso e nominato e lo capiamo bene: le simpatie sono tutte per i “ribelli”, non per i filogovernativi. Forse anche per questo aveva delle armi pronte all’uso in casa. Ci racconta che era un soldato di leva quando è scoppiata la guerra civile, che dopo i primi combattimenti si è salvato dall’esplosione di una barrel bomb che ha devastato l’edificio in cui si trovava con la conseguenza, però, di soffrire di disturbi mentali e di attacchi di panico. E ci confida come il suo superiore, presa a cuore la sua situazione, lo abbia aiutato a stare lontano dai combattimenti e che sia stato aiutato a fuggire in Turchia dai suoi amici che militavano, però nelle fila opposte, quelle dell’esercito siriano libero. Perché ricordiamoci che quella siriana è una guerra di fratelli contro fratelli.
Ora a Kilis è notte ma i rimbombi si sentono più forti fin da ieri: è iniziato l’imponente bombardamento russo nella Siria nord occidentale, a Homs e Idlib.