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Rifiutare la società e vivere in rete L'allarmante caso degli Hikikomori

Rifiutare la società e vivere in rete L'allarmante caso degli Hikikomori
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“Stare in disparte”: questo il significato del termine Hikikomori. Una parola giapponese, Paese nel quale è nato il fenomeno. Sono ragazzi, per lo più tra i 14 e i 25 anni, che decidono di isolarsi, lasciando scuola, famiglia e relazioni sociali per vivere chiusi nelle loro stanze. Passano la giornata tra film, manga e musica, spesso senza uscire dalla stanza neppure per mangiare. Raramente lavorano; non perché non possano, ma perché non vogliono, tranne i casi (soprattutto per gli Hikikomori in età adulta) di chi lavora da casa come free-lance. Quello che accomuna tutti è un profondo rifiuto per una società che giudicano negativa e con la quale non vogliono “mescolarsi”. Quasi tutti provano una forte pressione sociale, che sconfina in una grande inquietudine. C’è chi chiede aiuto, chi si attacca vicendevolmente, chi racconta i propri gesti autolesionisti. Gli Hikikomori si alzano quando vogliono, passando le giornate davanti allo schermo di un computer, tra un film e un videogioco, con qualche pausa per ascoltare musica o dedicarsi alla grafica o al loro manga preferito. Giornate che passano una dopo l’altra senza che ci sia alcun contatto con il mondo fuori.

 

 

L’Italia, che sembra essere secondo alcuni studi il Paese europeo con la più alta percentuale di Hikikomori, conta quasi centomila casi. Quantificare il fenomeno, però, è molto difficile. I campanelli di allarme sono vari: un disagio prolungato rispetto alla scuola, la preferenza per attività solitarie come i videogiochi, l’inversione del ritmo sonno-veglia o la passione smodata per il web. Molto spesso gli Hikikomori sono figli unici di famiglia benestante, con una grande intelligenza e sensibilità. Alcuni di loro hanno anche una ragazza, quasi sempre conosciuta online. La rete, infatti, è il loro mondo, il luogo delle loro uniche relazioni. Il gruppo Facebook Hikikomori Italia, infatti, conta centinaia di iscritti (e c'è anche un sito), organizzati in due chat: una per gli under 25, l’altra per i quasi trentenni. Il primo gruppo è fondamentale per decidere come “incontrarsi”, scegliendo su quale piattaforma e a che ora darsi appuntamento. Nella seconda chat, invece, tante conversazioni ruotano attorno a come organizzarsi per lavorare da casa. Gli Hikikomori, del resto, in rete imparano. Spesso non si concentrano sulle materie tradizionali, ma studiano informatica, grafica e programmazione. Così quelli che dopo qualche tempo (di solito qualche anno) decidono di uscire dalla loro stanza e tornare alla normalità non hanno un gap culturale così grande da colmare, grazie alle competenze acquisite sul web.

 

 

E i genitori cosa fanno? Alcuni non sanno come affrontare la situazione e non provano neppure a fare uscire i propri figli dal guscio che si sono costruiti; altri, invece, si rivolgono a psicoterapeuti per aiutare i ragazzi a uscire dal loro isolamento, iniziando un percorso che, però, è spesso molto lungo. Il fenomeno viene quasi sempre incrociato con la depressione e con la “dipendenza da videogioco”. Ma il diffondersi degli Hikikomori non è semplicemente questo. I loro casi sono molto particolari, da trattare adeguatamente per non arrivare a quello che è successo in Giappone, dove il problema è stato inizialmente sottovalutato lasciando che si diffondesse in maniere esponenziale, al punto che oggi i casi stimanti sono quasi un milione. L’errore, probabilmente, è stato quello di non parlarne. Da qui anche la scelta degli ideatori del gruppo Facebook italiano di creare un luogo ufficiale di “ritrovo” e discussione online per sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni verso questi ragazzi che hanno deciso di rifiutare la società.

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