I rischi di crollo della diga di Mosul che porterà in Iraq i soldati italiani

Da metà dicembre si rincorrono proclami e smentite sull’invio di truppe nel Kurdistan iracheno a protezione della diga di Mosul. Settimana scorsa il segretario di stato americano John Kerry, in visita a Roma, ha ribadito gli sforzi comuni tra Italia e Stati Uniti nella lotta contro l'Isis, in Iraq così come in Libia. Non è un mistero che il nostro Paese ha in programma di inviare 450 soldati nella zona, che si aggiungerebbero ai 700 già presenti tra Baghdad, Erbil e Kirkuk. Non a caso ieri, mercoledì 10 febbraio, il Premier Renzi ha incontrato Haydar al Abadi, primo ministro dell'Iraq, il quale ha ringraziato l'Italia per l'impegno preso. Martedì, invece, a esprimere elogi a Roma è stato Barack Obama, nel corso del suo incontro con Mattarella.
Perché la diga di Mosul. La diga di Mosul è considerata una delle più pericolose al mondo. Costruita all’inizio degli anni Ottanta su terreni calcarei e altri minerali che si dissolvono a contatto con l’acqua, ha rischiato fin dall’inizio dei lavori di collassare. Da 30 anni gli addetti alla manutenzione sono costretti a pompare quasi ininterrottamente tonnellate di malta alla base della struttura, per cercare di sostenerla ed evitare una breccia catastrofica. Il genio militare americano ha rinnovato le preoccupazioni una settimana fa: se la diga crollasse un lago da 11 milioni di metri cubi di acqua inonderebbe la valle del Tigri allagando Mosul, Baghdad, Samarra e Tikrit, con conseguenze catastrofiche. Era la paura che, per un breve periodo del 2014, in tanti avevano avvertito quando i soldati dell’Isis avevano interrotto i lavori di protezione, aumentando i pericoli che l’erosione avrebbe potuto portare al crollo. Uno studio dei ricercatori dell’università svedese di Lulea ha recentemente analizzato il caso, simulando le conseguenze di una inondazione: un’onda d’acqua di 26 metri raggiungerebbe Mosul in 4 ore, proseguendo dopo altre 18 ore con un’altezza di 16 metri fino a coprire con 4 metri di acqua e detriti il centro di Baghdad dopo un giorno.
L'incarico al gruppo Trevi. Il gruppo Trevi ha ricevuto martedì 2 febbraio, tramite l’ambasciata italiana, il comunicato diramato dall’ufficio del Primo Ministro iracheno dove si specifica la decisione di assegnare a loro il contratto per la manutenzione urgente della diga, dando seguito all’offerta presentata. Non è stata una vera e propria gara d’appalto in realtà: l’urgenza dei lavori pare sia stata determinante nella scelta. Il contratto, della durata di 18 mesi, dovrebbe avere il valore di alcune centinaia di milioni di euro per la parte di lavori urgenti. Il Gruppo Trevi è una holding quotata in borsa, nata 56 anni fa a Cesena. Attiva nel settore dell’ingegneria del sottosuolo e nella produzione di macchine per fondazione e perforazioni, è riconosciuto come uno dei leader mondiali negli interventi di consolidamento e messa in sicurezza delle dighe, oltre che nei lavori marittimi, nelle metropolitane e negli interventi di salvaguardia ambientale. Il gruppo ha chiuso il 2014 con 1.2 miliardi di ricavi con circa il 2% in meno all’anno precedente.
Ipotesi di lavoro. L’azienda era in trattativa con il governo iracheno sin dall’anno scorso, ma la minaccia dello Stato Islamico e le relative preoccupazioni legate alla sicurezza hanno fatto slittare l’accordo fino a pochi giorni fa. E proprio in coincidenza con la chiusura dell’appalto è arrivata la dichiarazione del ministro Gentiloni di inviare alcuni soldati. Una delle soluzioni possibili per risolvere il problema della diga è costruire un muro di cemento alla base dell’argine, conosciuto anche come “cut-off wall”, che funzioni come barriera per eliminare il rischio di erosione. Il Gruppo Trevi ha già condotto numerosi lavori del genere: l'intervento richiederebbe l’inserimento di questa protezione fino a 250 metri di profondità. Un’impresa estrema che potrebbe comportare persino danni peggiori di quelli che intende evitare.
Perché non soldati iracheni? L’esercito italiano così si appresta a tornare in forze in Iraq, dove è già presente con diverse missioni di addestramento in corso nelle principali città irachene e alla base aerea in Kuwait, con un contingente composto da almeno 450 soldati, elicotteri Mangusta, carri armati Ariete e cannoni semoventi Panzer. Insomma un dispiegamento di forze cospicuo e coerente con un’operazioni di guerra vera e propria. Ma per quale motivo non sono sufficienti le forze autoctone: gli iracheni, i curdi e i Peshmerga? Non è chiaro perché le truppe locali non siano in grado di difendere un sito di tale importanza basandosi sulle proprie forze. Dalle associazioni locali, quali Save the Tigris Campaign, si sono alzate proteste e proposte, chiedendo al governo di occuparsi della sicurezza della diga, piuttosto che delegare a forze armate estere, e ripensare l’utilità delle grandi dighe a favore di una gestione più sostenibile delle risorse del fiume. La recente visita del Segretario di Stato americano ha dato la spinta finale al governo italiano: le pressioni degli alleati per un maggiore coinvolgimento militare del nostro Paese nell’area del Golfo sembrano avere avuto la meglio, assieme alla protezione del lavoro di un’azienda italiana, ragionevole pretesto per giustificare l’intervento all’opinione pubblica.