Salvati dal Covid, ora non condanniamo gli anziani alla solitudine
Da un lato protocolli e responsabilità, dall'altro la legittima richiesta degli ospiti e dei familiari di allentare la stretta
di Andrea Rossetti
«Forse è meglio morire di Covid che di solitudine». Non c’era rabbia in queste parole, bensì amarezza, la presa di coscienza di un’impotenza che dilania innanzitutto loro, i direttori e i responsabili della Rsa, garanti di quelle persone che, nel silenzio, sono state e sono tuttora la vera prima linea nella lotta al virus: gli anziani. Mentre per tutti noi la normalità, inevitabilmente condizionata da ciò che stiamo vivendo, è lentamente tornata, per gli ospiti delle case di riposo ancora no. Vivono da semi-reclusi in campane di vetro fatte di cure, attenzioni, protocolli, fragilissime “strutture” messe in piedi negli ultimi mesi per evitare che la tragedia di marzo e aprile si ripeta. Intanto, però, solitudine e depressione sono i nemici da affrontare.
Ridurre al minimo il rischio
A dire quelle parole è stato uno dei direttori delle Rsa bergamasche durante l’ultimo incontro avvenuto con i vertici di Ats. Sin da luglio, ciclicamente l’Agenzia di Tutela della Salute invita in via Gallicciolli, in piccoli gruppi, i responsabili delle case di riposo del territorio per fare il punto della situazione, analizzare documenti, studiare strategie. L’obiettivo comune è uno solo: evitare che il coronavirus si insinui in questi centri di fragilità dove ha già mietuto troppe vittime. Ogni struttura, in base alle proprie caratteristiche, deve redigere un Pog (Piano organizzativo gestionale), alla cui base ci devono essere le linee guida dettate da Ats, ovvero dalla Regione. Tra i punti toccati nel Pog, c’è anche quello delle visite di parenti e amici agli ospiti delle strutture. In questo caso, l’indicazione dell’Agenzia è chiara: aprire il meno possibile, ridurre al minimo il rischio. Una decisione che, ovviamente, ha una ratio, ma che ha anche la conseguenza di fare sentire gli ospiti abbandonati dalle persone che gli vogliono bene.
Minuti (e visite) contati
Fin dove ci si può spingere? Fino a che punto si può tirare la corda? I parenti sono potuti tornare a vedere dal vivo i loro cari ricoverati nelle Rsa, nella maggior parte dei casi, soltanto a luglio, quando Regione ha finalmente dato il via libera prevedendo però un protocollo rigidissimo, a cui devono sottostare sia le strutture (adibendo spazi appositi e garantendo personale) che i visitatori (triage, dpi, moduli da compilare). E i minuti sono contati: un quarto d’ora, quando va di lusso mezz’ora o un’ora, comunque non più di una volta a settimana. Da soli, ovviamente. Niente gruppi, soltanto fugaci tête-à-tête. Le strutture più fortunate, quelle dotate di giardini o spazi all’aperto, finché il meteo regge possono concedere qualche libertà in più, ma le altre no. E così ci sono anziani che non escono dalle proprie stanze, dai soliti corridoi, da mesi e mesi.
Il pericolo è troppo alto
«Dopo mesi di videochiamate, ora con gli incontri va un po’ meglio - racconta la dottoressa Mariella Magni, direttore generale della Rsa Santa Chiara di via Garibaldi, a Bergamo -. Noi riusciamo a fare sei visite al giorno, due per nucleo, 36 a settimana. Non sono molte, vorrei davvero allentare un po’ la stretta, ma non possiamo correre alcun rischio. Sono responsabile della salute di tante, troppe persone. Non si può rischiare». Dello stesso avviso è anche la dottoressa Simona Rota Negroni, psicologa e referente di struttura della San Francesco di Bergamo: «Valutiamo costantemente alternative, ma la verità è che se si vuole tutelare la salute dei nostri ospiti, in questo momento le strade che possiamo percorrere sono pochissime. Avendo il giardino, finché il clima lo permette concediamo fino a due visite a settimana ai parenti, una sola persona alla volta. Solo in casi particolari, quando gli ospiti mostrano particolari fragilità psicologiche, cerchiamo di essere un po’ più flessibili».
L’avere a disposizione uno spazio all’aperto aiuta: «Il fatto di essere confinanti al parco del Montecchio è una fortuna - ammette Maria Giulia Madaschi, responsabile generale della Rsa Martino Zanchi di Alzano -. Ci dà la possibilità di fare incontrare i nostri ospiti anche con due, tre persone insieme. Una volta a settimana però, non di più. E comunque sempre rispettando la distanza e con l’accompagnamento di un membro del personale». Chi invece ha deciso, proprio negli ultimi giorni, di allentare un po’ la stretta è stata la Rsa Giovanni Paolo I di Seriate: «Attualmente ogni ospite ha a disposizione un incontro settimanale con massimo due persone per massimo un’ora - spiega il dott. Tiberio Foiadelli, responsabile della struttura -. Fino a una decina di giorni fa, invece, gli incontri erano singoli e per un massimo di un quarto d’ora». La Rsa di Seriate, nei mesi più neri della pandemia, è stata una delle più colpite della provincia in termini di decessi in rapporto al numero di ospiti e proprio questo, paradossalmente, permette oggi un po’ più di libertà: «I test sierologici sulle persone attualmente ospitate ci hanno confermato che oltre il novanta per cento di loro è già entrata in contatto col virus. Presentano gli anticorpi e ciò, almeno per il momento, le rende un pochino più protette. Per questo motivo, pur con tutte le attenzioni del caso, abbiamo deciso di allargare un po’ le maglie».