Raccolti in centri di detenzione

Sciopero della fame dei profughi sulla Ellis Island d'Australia

Sciopero della fame dei profughi sulla Ellis Island d'Australia
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Settecento richiedenti asilo da dieci giorni hanno iniziato lo sciopero della fame in un centro di detenzione per migranti dell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea. Alcuni di loro si sono cuciti le labbra, altri hanno ingerito detersivo, altri ancora filamenti metallici estratti dai rasoi usa e getta. La protesta è cominciata quando i migranti hanno saputo che il governo di Canberra ha deciso di spostare una cinquantina di rifugiati in una nuova struttura, che secondo loro li renderebbe più vulnerabili agli attacchi della popolazione locale. L’edizione australiana del Guardian riferisce che per risolvere la situazione di stallo, guardie di sicurezza in tenuta antisommossa sono entrate nel campo con la forza durante la notte, maltrattando i rifugiati e portando via i presunti capobanda. Le autorità australiane hanno invece sostenuto che le operazioni si sono svolte senza problemi. In un incidente simile, nel mese di febbraio 2014, una rifugiata 24enne è stata uccisa e circa 70 manifestanti feriti.

I centri di detenzione e le condizioni di vita. Il problema della gestione dei migranti sull’isola è storia vecchia. L’Australia usa i centri di detenzione di Manus e quelli di Nauru, nel Pacifico meridionale, per trattenere i migranti in attesa che le loro richieste di asilo siano prese in considerazione e impedendo loro di raggiungere le sue coste. Sono chiamati centri di detenzione offshore. A Manus, in particolare, sorge il più grande centro di raccolta e detenzione dei profughi che si accostano alle acque australiane da diversi Paesi, soprattutto dal Sudest asiatico. Molti sono arrivati qui per fuggire dal conflitto indonesiano degli anni ’90. L’Australia, infatti, rappresenta ormai da anni una delle principali mete per tutti coloro che hanno necessità di fuggire dai diversi Stati del cosiddetto Arco di Instabilità (Indonesia, Timor Est, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Isole Fiji, Tonga e Nauru), situato a nord delle coste australiane, caratterizzato spesso da instabilità politica, balcanizzazione, degrado, violenza e povertà. Oggi, la maggior parte dei richiedenti asilo che arrivano in Australia proviene dall’Iran, dall’Iraq, dall’Afghanistan e dallo Sri Lanka.

 

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Recentemente anche molti siriani in fuga arrivano qui. Viaggiano via mare verso l’Indonesia e da lì raggiungono l’Australia, che li trasferisce a Manus in attesa venga deliberato lo status di rifugiati. Nei campi di Manus, composti da tende e baracche, vivono insieme uomini, donne, anziani, bambini, senza distinzione. Succede che rimangano lì per anni in condizioni di vita durissime, al limite della sopravvivenza come ha più volte denunciato Amnesty International. Molti degli immigrati accusano inoltre forme di disagio mentale a causa della detenzione e dei presunti maltrattamenti sull’isola.

Negli ultimi giorni Amnesty International ha rivolto un appello affinché venga tutelato il diritto dei rifugiati di protestare contro le loro condizioni di vita. Fonti interne al centro, che hanno nascosto il loro telefono cellulare per il timore di ritorsioni da parte delle guardie, hanno documentato episodi drammatici: gente che sviene dagli stenti, persone sdraiate a torso nudo sul pavimento di cemento. La stessa Amnesty International ha riferito di aver visitato il centro di detenzione e di aver scoperto che “alcune condizioni nel centro violano la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura”. Ha inoltre concluso che l'impianto è “progettato per fare pressione sui richiedenti asilo affinché chiedano il loro ritorno in patria, indipendentemente dal fatto che si troveranno ad affrontare la persecuzione nei paesi da cui sono fuggiti”.

La denuncia dei vescovi. La Chiesa australiana lo scorso anno, dopo gli ennesimi episodi di violenza, ha chiesto al governo di riconsiderare la sua politica di detenzione e reinsediamento dei rifugiati a Manus Island. L'attuale politica dell'Australia su migranti e rifugiati, secondo i vescovi, porta a conseguenze tragiche. L’approccio adottato è di tipo punitivo e la Chiesa locale ha più volte avvertito del rischio di escalation di disordini tra i migranti e i rifugiati che non trovano accoglienza ma solo disprezzo. Anche la popolazione locale, infatti, non accetta queste persone, perché li considera dei delinquenti in prigione e per questo spesso si verificano aggressioni nei loro confronti.

 

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Australia e immigrazione. A dicembre 2014 l’Australia ha rivisto le sue norme che regolano l’immigrazione, introducendo nuove restrizioni e limitazioni dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Non ci sarà più una protezione permanente ma un visto temporaneo per rimanere nel Paese, che va dai 3 ai 5 anni durante i quali i rifugiati possono vivere e lavorare in Australia. Al termine di questo il governo potrà decidere di espellere chi beneficia di questo visto. E di fronte alle accuse di violare le convenzioni internazionali, si difende dicendo che spetta alla Papua Nuova Guinea conferire un primo status di rifugiato per poi procedere a un eventuale reinsediamento in Australia.

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