una disfatta epica

Lacrime verdeoro mentre twitter se la ride

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Alla fine, al centro del campo, i giocatori brasiliani pregano. Ma questa volta non gli servirà. L'uomo nero ha rubato i sogni di un popolo. Ha fatto piangere i bambini, risvegliato gli incubi negli adulti, l'incredulità negli ottantenni. Chi pensava di aver visto tutto si è dovuto ricredere: il Brasile ha perso 7-1 contro la Germania, a casa sua, nella semifinale del suo Mondiale. Non è possibile, e invece sì. In finale giocherà la squadra di Loew, che aspetta di conoscere la vincente di Olanda-Argentina. C'è qualcosa di surreale in questa disfatta brasiliana apparentemente senza spiegazioni né logica, qualcosa di terribile, che non resterà solo nei cuori e negli occhi degli sconfitti: rimarrà dentro a tutti noi, testimoni muti di una partita che è già storia del calcio.

In conferenza stampa, Felipe Scolari si è assunto le responsabilità del fallimento. «E' colpa mia», ha detto. Ma la verità è un'altra: il Brasile non è mai stata la squadra da battere. Lo è stata perché giocava in casa, ecco tutto. Avevano paura di un altro Maracanazo, ma quello era stato scongiurato con l'eliminazione dell'Uruguay agli ottavi. Avevano conosciuto la potenza dei miracoli quando, contro il Cile, Pinilla era andato a un centimetro dalla gloria colpendo una traversa al 119'. Poi rigori, e avanti. Contro la Colombia sembravano aver ritrovato un po' di quel caro, vecchio splendore carioca, anche se a spingerli in semifinale era stato più uno sbuffo che una tempesta. Di fronte alla Germania non c'è stato niente da fare, tutto inutile: le preghiere, l'entusiasmo della gente, le convinzioni tattiche di Scolari. «E' una giornata di grande tristezza, avrei voluto vedere l'intero paese felice», dirà alla fine David Luiz. Invece è la giornata che segna il confine nella storia brasiliana: di qua c'era la gloria imperitura, oltre c'è la rifondazione. «Sì, ma non c'era Neymar», penserà qualcuno. «Non c'era nemmeno Thiago Silva: con lui in difesa il Brasile non perde». Quando un uomo teme la sorte si aggrappa a ciò che non possiede, giustifica le mancanze, le rende indispensabili. Alla vigilia, ancor prima di giocare, gli stessi brasiliani si erano dati sfavoriti. Avevano ammesso la superiorità tedesca, e questo era stato già un primo segno di resa. I limiti tecnici sono solo la conseguenza.

Alla fine, nell'incredulità generale, l'intero Mineirão di Belo Horizonte ha applaudito i tedeschi. Prima della sfida, il sergente Loew aveva detto: «Il nostro obiettivo non è la semifinale, è la Coppa». Ha sbattuto i pugni sul tavolo. Dato pochi, semplici ordini. I soldati sono scesi sul campo di battaglia per vincere, e hanno vinto. Ora vogliono il titolo. Confermando una vena da sbruffoni, un giorno prima della gara la stampa tedesca se n'era uscita con: «Vi faremo piangere ancora», riferendosi alle lacrime facili dei brasiliani dopo ogni (nervosissima) vittoria. Ma niente di quel che abbiamo visto era pronosticabile. Quella di Loew non è stata solo una squadra organizzata. I tedeschi hanno giocato un calcio ordinato (e sai che novità), non più fisico e muscolare come una volta: adesso giocano un calcio fatto di verticalizzazioni, passaggi corti, inserimenti e imprevedibilità. Il loro è un calcio multietnico e multitecnico. E per buttare giù il muro brasiliano gli sono bastati 11', un angolo di Kroos, un blocco sulla faccia di David Luiz, e il piattone di Müller. All'1-0 è seguito il secondo - Klose, ora miglior marcatore di sempre nella storia dei Mondiali -, e poi il terzo, il quarto (doppietta di Kroos). Al quinto (di Khedira) qualcuno ha lasciato lo stadio per non soffrire ancora. Bernard, che nel suo stadio doveva sostituire Neymar, è stato, in tutti i sensi possibili, pietoso. Oscar doveva trascinare il gruppo, ha ceduto al peso delle responsabilità. Gli altri brasiliani sono stati per lo più comparse di un dramma senza ritorno. Quello del 1950 contro l'Uruguay era stato un evento sciagurato, trasformatosi poi, nel corso di sessantaquattro anni, da ferita a leggenda. Materiale per la letteratura. Nonostante le storie e i racconti di chi c'era e chi l'aveva vissuto, i giovani presenti ieri allo stadio non avrebbero mai potuto comprendere fino in fondo cosa volesse dire vivere quel sogno spezzato. Hanno conosciuto di peggio. Il 7-1 contro la Germania segnerà le nuove generazioni, e forse tutto il Paese.

Nel centro del campo, alla fine di tutto, i brasiliani si sono riuniti in cerchio, Scolari nel mezzo, qualcuno piangeva. Qualcuno pregava. Ma questa volta nulla servirà. Nel secondo tempo la Germania aveva abbassato il ritmo, riuscendo comunque a trovare due gol (Schürrle) e trasformando il risultato in qualcosa di molto lontano. Nessuno di noi - a questi livelli e per queste Nazionali - era mai stato abituato a vivere goleade del genere. Quello di ieri è un punteggio arcaico, di quelli che stanno sepolti nelle ultime pagine degli almanacchi e che vengono rispolverati per qualche distratto compendio statistico pre-manifestazione. «La volta che il Brasile perse con sei gol di scarto era il 1920». Il '20, appunto, troppo lontano per poter essere vero. Ma lo è, e lo abbiamo visto anche noi. La disfatta del Brasile ci accompagnerà nella vita come qualcosa di eccezionale: l'allunaggio, o una nuova scoperta medica. Segna la fine di un mito. Ai brasiliani non resta che augurarsi di vincere la finalina, magari contro l'Argentina, per coltivare almeno nell'illusione l'idea di essere sempre i più forti del Sudamerica. In quanto ai tedeschi, c'è ben poco da dire: perfetti. In Europa li conosciamo, ci siamo abituati. Magari perdono, ma prima fanno paura. E' per questo che tocca sempre a loro la parte dei cattivi.

I tweet ironici.

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