Le critiche e le risposte del premier

Tutti i volti e i battibecchi della tre giorni alla Leopolda

Tutti i volti e i battibecchi della tre giorni alla Leopolda
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Mentre a Roma, sabato 25 ottobre, sfilava la sinistra di "Bella Ciao" e delle bandiere rosse (erano un milione dicono gli organizzatori. Si attende rettifica della Procura), a Firenze andava in scena la sinistra della Leopolda, quella un po’ radical-chic ma che sta oggi guidando il Paese. Dove e come ancora non è dato saperlo. Ma è certo che la tre giorni della Leopolda5 (hashtag che ha spopolato nei social) è stata una fucina di parole, volti e anche scontri. Scontri di ideologie e di proposte. E nonostante il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi neghi ogni forma di contrasto («Non c'è nessuna conta e nessuno scontro»), i contrasti ci sono stati e pure belli accesi.

C’erano una volta i rottamatori. Anche quest’anno, come nelle quattro edizioni precedenti, la kermesse fiorentina ha un suo slogan: “Il futuro è solo l’inizio”. In realtà, però, dello slogan se ne sono interessati pochi. Per la prima volta i rottamatori hanno incontrato i loro sostenitori da gruppo di Governo. Ma non tutti. Pippo Civati, ad esempio, nella Leopolda più verace e meno mediatica (quella del 2010), era sul palco tra abbracci e sorrisini all’allora compare Matteo Renzi. Quattro anni dopo e una scalata al partito e all’Italia riuscita, Pippo Civati, alla Leopolda, non ci vuol più mettere piede: «Quello che sta dicendo negli ultimi giorni Renzi è quello che diceva Berlusconi. Quando dice che ci sono un milione di persone in piazza e sessanta a casa Renzi fa una citazione letterale di Berlusconi. Era il 2002 e io ero in piazza». Ma come? Il rottamatore per eccellenza è diventato il nemico per eccellenza? A quanto pare sì, ma Renzi, da buon diplomatico, ricorda che «la Leopolda è anche casa di Civati». Civati sogghigna: «Avevo invitato Renzi a venire qui (in piazza con la Cgil, ndr), ma non è venuto». Il problema, secondo Renzi, è che in piazza San Giovanni, sotto l’egida della Camusso e di Landini, sfila la sinistra che pensa ancora che «l’Italia si sblocchi con i cortei e le manifestazioni. Qui c’è l’Italia che propone come sbloccare l’Italia».

 

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La sinistra del 25% e quella del 41%. Matteo Renzi, dal palco della Leopolda, non parla mai di “due sinistre” in modo concreto, ma fa di tutto perché il concetto sia ben chiaro. E lo fa, in primis, attaccando chi l’ha attaccato. Come Rosy Bindi, che in uno scontro televisivo con la governatrice del Friuli-Venezia Giulia, Deborah Serracchiani, ha definito la Leopolda «una contromanifestazione imbarazzante», in cui, addirittura, «il Partito Democratico va oltre se stesso». La Serracchiani ha risposto con la pacatezza di chi ritiene di parlare con la vecchia zia non al passo coi tempi: «Tradisci mancanza di conoscenza, ignoranza di ciò che accade alla Leopolda. Non è una contromanifestazione, qui c'è tantissimo Pd. Certo, ci sono gli imprenditori, ma io non posso non parlare con gli imprenditori se intendo governare e amministrare un Paese». Meno pacata la risposta del premier, giunta dal palco il giorno seguente: «C’è chi si imbarazza perché dopo 25 anni uno riesce a mettere insieme le persone che parlano di politica. A chi ha detto che la Leopolda è imbarazzante diciamo che non consentiremo a quella classe dirigente di riprendersi il Pd e riportarlo dal 41% al 25%. Non consentiremo a nessuno di fare del Pd il partito dei reduci». Più che il fioretto, Renzi usa la clava. E giù applausi scroscianti.

Scissione? Non scherziamo. I volti di Fassina, Civati e Cuperlo in marcia al fianco della Camusso e dei sindacati arrivano come immagini sfocate e lontane a Firenze, dove i “ragazzi” della Leopolda personificano lo stile gagliardo di chi non ha paura del futuro e si sente forte dei propri mezzi e, soprattutto, dei propri consensi. Così, il premier Renzi, non ha teme di sfidare quei democratici che nel suo grande e ipotetico “Partito della Nazione” (poco conta l’ossimoro insito in questa stessa definizione), in grado di unire l’ex vendoliano Gennaro Migliore all’ex montiano Andrea Romano, non credono, o meglio, non vogliono credere: «Quelle come quella di ieri della Cgil sono manifestazioni politiche, e io le rispetto. Non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di diverso. Sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro». Traduzione: pensatela pure diversamente, fatevi un vostro partito e poi vediamo, alle urne, chi vincerà. A tempo zero, arriva la risposta di chi dovrebbe idealmente far parte di quel partito della sinistra nostalgica, come Alfredo D’Attore, bersaniano convintissimo: «Se Renzi spera in una rottura, se lo tolga dalla testa. Noi rimarremo nel Pd per restituirgli la sua vocazione di grande partito della sinistra e per costruire un'alternativa nel Pd che possa affermarsi nel prossimo congresso». Nelle poco credibili vesti di pompiere è intervenuto, di ritorno da un vertice bilaterale in Cina, anche il presidente dell’Assemblea del Pd, Matteo Orfini: «Abbassiamo i toni». Critichiamo sì, ma dall’interno. E Renzi, dal palco, sogghigna soddisfatto. Sa benissimo che s’è preso il partito e che difficilmente lo perderà a meno che non sia lui a restituirlo. Quando? È il premier stesso a darsi una scadenza: «Arrivo al massimo al 2023, poi mollo. Non faccio più di due mandati».

Il “Partito della Nazione” alla prova. Interessanti, però, anche gli scambi di vedute che hanno avuto luogo direttamente sul palco della Leopolda. Perché se è vero che è bello pensare di unire «Migliore e Romano, sinistra convinta e democratici», come ha spesso sottolineato Renzi, è innegabile che qualche frizione può esserci. Come tra l’ex di Sel e il finanziere d’assalto Davide Serra, leopoldino della prima ora e tra gli oratori più battaglieri contro la Cgil: «Il diritto di sciopero della pubblica amministrazione va limitato, va molto regolato prima che tutti lo facciano random. Se volete scioperare, scioperate tutti in un giorno: in caso contrario, chi vuole venire qui ad investire, non ci viene. Quello che voglio dire è che lo sciopero è un diritto, ma anche un costo». E, sul criticatissimo (da piazza San Giovanni) Jobs Act, rincara: «Potrebbe essere più aggressivo. In Italia siamo rimasti agli anni ‘60: ma che vadano a vedere come funziona in Russia e in Cina». Forse un po’ troppo, anche per gli innovatori della Leopolda, che infatti applaudono tiepidamente, come del resto fanno alla risposta di Gennaro Migliore al finanziere: «Il diritto di sciopero non è un diritto qualunque, è il primo dei diritti». C’è chi è troppo di destra e chi è troppo di sinistra insomma. Per fortuna c’è anche chi, a suo modo, si schiera ma stempera, come l’astronauta Luca Parmitano, che ha proiettato in sala la foto dell’Italia scattata dallo spazio, con un semplice commento: «I confini li abbiamo inventati noi, vedete? Dall’alto non ci sono, i confini sono interiori, sono quelli che dobbiamo superare».

La figura del leader. Alla fine, però, a catalizzare tutto sono stati i due macro interventi di Renzi, in apertura e in chiusura di kermesse. Se venerdì era stato un Renzi motivatore e “padre buono”, domenica, in chiusura di Leopolda, è stato un Renzi combattivo, pronto alla battaglia. Dopo i «Renzi, Renzi, vaffanculo!» risuonati a Roma tra i manifestanti della Cgil, il premier ha assunto la figura del leader che abbiamo fino ad oggi conosciuto, quello del pensiero innovativo contro il pensiero arcaico. E lo fa partendo dagli attacchi alla sua riforma del lavoro e all’abolizione dell’articolo 18: «Nel 2014 aggrapparsi ad una norma del 1970 che la sinistra di allora non votò è come prendere un iPhone e dire “dove metto il gettone del telefono?”. O una macchina digitale e metterci il rullino. È finita l’Italia del rullino». Del resto, ricorda Renzi, «tutte le volte che hanno cercato lo strappo (quelli dell’iPhone con i gettoni, ndr), hanno perso». Solita boria vanagloriosa di Renzi il voler apparire come l’unica strada per il futuro dell’Italia? Forse, ma come spiega Elisabetta Gualmini per La Stampa, «effettiva capacità di esercitare la leadership, a livelli che l’Italia non ha conosciuto per decenni». Renzi è la figura del leader che a sinistra mancava da decenni. E attacca a testa bassa anche i «gufi, i tecnocrati e vecchia guardia», che «rosicano perché noi stiamo riuscendo dove loro hanno fallito». Il discorso finale di Renzi a Firenze è stato il guanto di sfida più duro ala minoranza interna al Pd, a cui ha ricordato che «prima e oltre dell’opinione liquida degli italiani, Matteo Renzi ha conquistato il partito. E che se lo tiene stretto» (cit. Stefano Menichini su Europa).

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